Non
acquistiamo più nulla! Abbiamo gli armadi stracolmi di indumenti,
utilizziamo questi. Non seguiamo la moda, non arricchiamo ancora di più
le multinazionali, non siamo complici di sfruttamento e lavoro di
bambini. Un altro tempo è arrivato: quello della consapevolezza. Un
altro tempo deve arrivare in fretta: quello del buon senso.Abbigliamento usa e getta
Un’industria insostenibile e inquinante
Abiti venduti e resi subito. Accessori progettati
per durare una stagione soltanto e destinati a rompersi nel giro di
poche settimane per poi finire in discarica o nel Sud del mondo. Con
produzione di massa, bassa qualità e prezzi irrisori, l’industria del
fast fashion genera enormi quantità di rifiuti e inquinamento. E dietro
le false promesse di sostenibilità, spesso si nasconde il greenwashing e
un impatto ambientale e sociale devastante.
Abbigliamento usa e getta
Ogni anno soltanto nell’Unione Europea vengono gettate
via 5 milioni di tonnellate di vestiti e calzature (circa 12 chili per
persona) e l'80% di questi finisce in inceneritori e discariche. Meno
dell'1% dei vecchi vestiti, infatti, viene utilizzato per creare nuovi
capi. Quando non finiscono nelle discariche e negli inceneritori
europei, i capi di abbigliamento vengono esportati in altri Paesi e da
qui se ne perdono le tracce.
Ci vestiamo di plastica
Nylon, acrilico, poliestere: oltre il 60% delle fibre
tessili usate per produrre i nostri abiti sono fibre sintetiche e molte
derivano dalla raffinazione di idrocarburi come gas e petrolio
Il poliestere, derivato dal petrolio, già dopo i primi
lavaggi comincia a rilasciare microplastiche, che finiscono nei mari e
poi, risalendo la catena alimentare, anche all’interno del nostro cibo.
L’industria fossile cresce e prolifera anche grazie al fast fashion.
La nostra indagine sui resi online: vestiti che percorrono fino a 10mila km
Abiti acquistati e poi resi più volte. Pacchi di vestiti
che viaggiano anche per decine di migliaia di chilometri tra l’Europa e
la Cina, senza costi per l’acquirente e con spese irrisorie per
l’azienda produttrice, ma con enormi impatti ambientali: è quanto è
emerso dall’indagine condotta dall’Unità Investigativa di Greenpeace
Italia che per quasi due mesi, in collaborazione con la trasmissione
televisiva Report, ha tracciato i viaggi compiuti da alcuni capi
d’abbigliamento del settore del fast-fashion acquistati e resi tramite
piattaforme di e-commerce, svelando una filiera logistica schizofrenica,
i lunghissimi viaggi e l’impatto ambientale in termini di emissioni di
CO2 equivalente.
Sostenibilità?
È solo Greenwashing!
Le aziende del fast fashion promuovono la loro presunta sostenibilità e il rispetto di migliori condizioni di lavoro dichiarando nelle etichette che i loro capi d’abbigliamento sono prodotti con un minore impatto ambientale. Spesso però si tratta solo di greenwashing. La nostra indagine su 29 marchi ha mostrato la verità, e brand conosciuti in tutto il mondo come Benetton Green Bee, Calzedonia Group, Decathlon Ecodesign, H&M Conscious e Zara Join Life, solo per citarne alcuni, hanno ricevuto il bollino rosso rispetto alla credibilità delle dichiarazioni in etichetta.