La strana scelta della Sicilia, che ha affidato agli agronomi (e non agli archeologi) templi, teatri e mosaici, di Gian Antonio Stella
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Corriere della Sera |
Direte: ma come, un agronomo invece di un archeologo alla guida di uno dei tesori archeologici più importanti del pianeta che conta sulla bellissima Villa del Casale, le rovine di Morgantina e il museo di Aidone che ospita la celebre dea di Morgantina e gli omonimi argenti inviati all’Expo di Shanghai come vanto dell’Italia? Esatto. E Carmelo Nicotra,
già informatore scientifico per una ditta di fertilizzanti, commissario
per il «ripopolamento ittico della fascia costiera ionica», dirigente
del museo della ceramica di Caltagirone e infine responsabile del Parco di Kamarina, si rivelerà magari bravissimo. Lui stesso, nelle sue prime interviste, ha rivendicato di essere sì laureato in Scienze agrarie
ma di fare «il dirigente da 30 anni: questo significa che so gestire
risorse umane ed economiche lavorando per obiettivi e per la
valorizzazione del territorio. Non c’è dunque bisogno di essere un
archeologo».
Può essere, in un Paese normale. In cui tocchi comunque a un archeologo l’ultima parola sui progetti archeologici. Ma è così, in Sicilia? No. Prova ne sia il montaggio del Telamone-Frankenstein (90 pezzi di 8 statue diverse) «ricostruito» ad Agrigento senza che un archeologo potesse metterci becco. O la nomina l’altro ieri a soprintendente per i Beni culturali e ambientali a Siracusa di Antonino Lutri il cui curriculum di dipendente regionale non vede un solo giorno passato nei dintorni dei beni culturali. Esperienze? Decenni al «genio» e alla motorizzazione civile! Tema: sarà sua l’ultima parola, ad esempio, sulla scelta di lasciare il Teatro Greco ingabbiato nel legno per altri due mesi dopo la fine della stagione classica con Roberto Bolle (14 luglio) perché sono stati sì aboliti i mega-concerti rock ma il 27 settembre Francesco Lollobrigida vorrebbe una serata per gli ospiti G7 dell’agricoltura? Evviva il rispetto per i turisti che arrivano da San Francisco o da Tokio e si ritrovano uno dei massimi teatri antichi imbullonato in assi d’abete...
La questione, spiega una lettera di Confederazione italiana archeologi, Italia nostra, Fondazione Bianchi Bandinelli e altre associazioni culturali inviata sabati 22 giugno al governatore Renato Schifani e alle autorità siciliane ma anche a Gennaro Sangiuliano (per invocare una tutela superiore dello Stato contro l’andazzo isolano) non è la nomina di un singolo agronomo o ingegnere ma la sistematica esclusione dei funzionari archeologi da ogni scelta che abbia a che fare con la tutela: «Nell’organigramma del Dipartimento beni culturali e identità siciliana risulta una sola archeologa direttrice del Parco di Naxos e Taormina (in procinto d’andare in pensione). Tutti gli altri hanno i seguenti profili professionali: agronomi nel Parco archeologico di Selinunte, Cave di Cusa e Pantelleria, e in quello di Catania e della Valle dell’Aci; una laureata in Scienze politiche nel Parco archeologico di Gela; architetti nei Parchi archeologici di Agrigento, Segesta, Himera (Iato e Solunto), Lilibeo-Marsala, Tindari, Eolie, Leontinoi e, infine, Siracusa, dove il Parco archeologico della «Neapolis» comprende anche il Museo Paolo Orsi, Eloro, la Villa del Tellaro ed Akrai. In realtà anche gli altri parchi archeologici inglobano, contra legem, tutte le aree e i musei archeologici delle nove province siciliane, ad esclusione del solo Museo archeologico Salinas di Palermo, che, però, è diretto anch’esso da un architetto».
Si dirà: ma sono architetti, mica lavapiatti! Vero. Ma, con tutto il rispetto, non solo ci si può laureare in Architettura senza fare un solo esame (facoltativo) di Storia dell’arte (e figurarsi di Archeologia!) ma gran parte di quegli architetti, ingegneri, geologi, smaltiti via via negli uffici più diversi compresa l’agricoltura, la caccia, la pesca e altri estranei ai beni culturali, furono assunti dalla Regione nella grande infornata clientelare fatta alla fine degli anni Ottanta con la scusa di esaminare le pratiche del condono edilizio del 1985. «Quanti dovevano essere? Non si ritenne necessario scriverlo», spiega La zavorra di Enrico del Mercato ed Emanuele Lauria. «Ai 400 sindaci dei comuni siciliani fu lasciata mano libera nella scelta del numero delle persone da assumere, con un solo vincolo: sarebbero state messe sotto contratto per 2 anni, poi sarebbero dovute tornare alle loro occupazioni precedenti». Alla fine «ne furono messi sotto contratto almeno 3.500».
Risultato finale di queste pratiche di condono? Secondo Sogeea cinque anni fa ne restavano da smaltire nell’isola 623.109. Nessuno stupore. Ricorda nel libro citato un ingegnere, Gaetano Buffa, assunto come tecnico della sanatoria nel 1989 al Genio civile di Palermo: «Eravamo 90 in tutto, 13 o 14 per stanza. Eravamo costretti a sederci sulle scale. Compiti? Direttive? Neppure l’ombra. In più i colleghi più anziani ci guardavano con legittimo sospetto e blindavano gli armadi. Un giorno andai dal segretario dell’ingegnere capo e gli chiesi lumi, un po’ scocciato, su quali fossero i nostri incarichi. Mi rispose serafico: “Fatti una passeggiata in via Maqueda”. In un anno lì credo di non avere esaminato un solo progetto».
Si trattava «in gran parte di liberi
professionisti che avevano lasciato un’attività in proprio per un
contratto da 1.000.000 di lire al mese, ma soprattutto per la
prospettiva del posto fisso». Scommessa vinta. Di governatore in governatore, furono tutti stabilizzati senza
un concorso come funzionari. E il 15 maggio 2000, nella gioiosa
ricorrenza dell’istituzione della Regione autonoma siciliana nel 1946,
al grido di «todos caballeros» diventarono tutti dirigenti. E pronti a
gestire, senza i titoli opportuni se non obbligati, i siti archeologici.
Con esiti a volte paradossali come nel caso di Felice Crescente che,
fatta carriera nei consorzi di bonifica per esser poi scelto come
direttore dell’immensa Selinunte, è infilzato su Facebook per le
condizioni in cui versa il parco greco tenuto in ordine nelle parti più
battute dai turisti ma per il resto, compresa l’area dietro il
celeberrimo Tempio C sull’Acropoli, abbandonato alle sterpaglie le cui
radici azzannano implacabili le rovine: ma come, tu quoque agronomus?
Gian Antonio Stella - Corriere della Sera, 23 giugno 2024