MENTRE "QUELLI" FANNO ACCORDI ELETTORALI. Sei milioni di poveri e non sentirli, di Alessandro Trocino

La povertà non è stata abolita, come pretendeva Luigi Di Maio (la politica ha abolito lui, se non fosse per il ripescaggio internazionale), né si può abolire per decreto, come sostiene anche Giorgia Meloni. Ma questo non significa che la politica non abbia i mezzi per intervenire. E che ogni atto, o inerzia, comporti un aumento o una diminuzione della povertà. I dati dell’Istat ci dicono che la situazione è drammatica. Non è allarmismo. È la verità cruda dei numeri. Vediamoli, prima di provare a capire, considerando che è l’Istat a stabilire, in base a un paniere di beni e di servizi, alla dimensione della famiglia e al luogo di residenza, la soglia sotto la quale si può definire qualcuno in stato di povertà assoluta (cioè non riesce con le sue entrate, e senza aiuti, a procacciarsi i beni e servizi essenziali per la sopravvivenza e una vita decente).

In povertà assoluta ci sono 5,7 milioni di persone, 2,23 milioni di famiglie. Il 9,8 degli individui, l’8,5 delle famiglie. Nel 2022 erano il 9,7 delle famiglia e l’8,3 delle persone . I minori in povertà sono 1,3 milioni. Lo stesso numero del 2022. Ma nella percentuale, il 14 per cento, più alta dal 2014. Come sempre, al Sud c’è l’incidenza più elevata di povertà. Ma è al Nord e al Centro che ora aumenta (forse perché più di così al Sud è difficile).

Proviamo a leggere questi dati. Ci dicono che rispetto al 2022 c’è un leggero peggioramento. E che peggiorano soprattutto le famiglie che hanno come capofamiglia, nel senso di colui il quale porta a casa i soldi, un lavoratore dipendente. Quasi un milione di famiglie con un lavoratore dipendente sono in povertà assoluta. E’ l’effetto del cosiddetto lavoro povero: in pratica, non basta più lavorare, perché gli stipendi non reggono l’inflazione. E la situazione peggiora nelle famiglie con figli: il 12 per cento di queste è più povero di quelle senza figli. I minori che appartengono a famiglie in povertà assoluta sono 1,3 milioni.

Cosa ci dicono questi dati? La prima cosa che ci dicono che è non lo sapevamo. Che ci siamo distratti. Viviamo la nostra vita più o meno agiata senza renderci conto che ci sono quasi sei milioni di persone che non ce la fanno a vivere decentemente. Una su dieci. Non ce ne accorgiamo anche perché il governo, e le appendici mediatiche a partire dal Tg1, preferiscono soffermarsi sul record di occupati e sul caso Decaro (apertura del Tg delle 20 di ieri). E perché, come dice Antonio Russo, portavoce dell’Alleanza contro la povertà, ed è la seconda cosa da notare, siamo di fronte a un «processo di cronicizzazione». Nel senso che non si tratta di un’emergenza, ma di una situazione costante (e in peggioramento). E dunque puntare il dito contro Meloni ha senso solo perché al governo ora c’è lei ed è l’unica che può intervenire per cambiare le cose: ma le responsabilità di chi c'era prima, anche a sinistra, rimangono e non sono cancellabili. La retorica da dopoguerra del «poveri ma belli» ha fatto il suo tempo. La povertà è brutta (e criminogena)

La terza è che è povero anche chi lavora. E questo riapre il dibattito sulla politica. Perché il lavoro povero, cioè sottopagato, rimanda alla questione del salario minimo. Bandiera sventolata dalla sinistra, che la destra ha ammainato. Se lavoro, e guadagno poco, bisogna alzare gli stipendi. Se gli imprenditori non lo fanno, serve stabilire per legge una soglia al di sotto della quale non si può andare. E se c’è bisogno di denaro pubblico, si potrebbero usare quei 650 milioni spesi inutilmente per i migranti in Albania (da leggere il Dataroom). Oppure intervenire su quei 43 miliardi guadagnati come utili dalle banche italiane nel 2023.

E poi naturalmente c'è il reddito di cittadinanza. Nella narrazione populista dei 5 Stelle serviva a risolvere il problema della povertà. Del resto Beppe Grillo predica da anni che non bisogna più lavorare, che serve un reddito universale, una quota di soldi per sopravvivere che ti spettano in quanto essere umano. Utopia respinta dalla destra, che cavalca la retorica del «lavorare» e dei «fannulloni», ma considerata con sospetto anche a sinistra (c’è però una versione sostenuta persino dal New York Times, come ci raccontava qui Elena Tebano). Quello che bisognerebbe fare è non considerare il reddito come la panacea di ogni male. Usarlo per le famiglie davvero in difficoltà. E aiutare chi potrebbe trovare lavoro a formarsi, a entrare nel mercato dell’occupazione e a ottenere un reddito decente.

Con l’abolizione del reddito di cittadinanza, voluto dal governo Meloni, 1,2 milioni di nuclei familiari beneficiari hanno perso questa entrata, a fronte dei 550 mila che hanno ottenuto la misura sostitutiva, l’assegno di inclusione. Quasi ottocento mila persone hanno perso ogni sostegno e sono entrate probabilmente dentro le statistiche della povertà assoluta (da notare che nel 2019, anno di introduzione del reddito, c’è stato l’unico calo nelle statistiche).

E ora? Che fare? L’ipotesi principale, largamente prevalente, è che si faccia finta di nulla. Del resto ci sono da mesi (anni) appelli a salvare la sanità pubblica, che sta letteralmente inabissandosi come dimostrano tutti i dati, e sembra che non stia succedendo niente. E a quanto pare sembra che sia la strada scelta, visto che né Meloni né altri esponenti del governo hanno ritenuto necessario commentare questi dati. La seconda sarebbe lanciare qualche slogan, di quelli che servono a nascondere l’assenza di iniziative. La terza, intervenire seriamente. Sulla povertà endemica. Sulla disoccupazione. Sul lavoro povero, part time o tempo pieno. Attivando il salario minimo. Ripristinando una forma di reddito di cittadinanza. Potenziando l’assegno unico e la decontribuzione. Ridistribuendo risorse pubbliche dai più abbienti a chi non ce la fa.
Alessandro Trocino