Scrivo narrativa. Ho sempre scritto narrativa. Ho sempre trovato molto più interessante rispondere alla domanda «cosa sarebbe potuto succedere» piuttosto che alla domanda «cos’è successo». Ai miei studenti di scrittura creativa insegno: la realtà rappresenta un buon materiale di partenza. Per trasformare un evento biografico che vi è successo in una storia, lo dovete portare all’estremo. Se quello che vi è capitato era in carattere 12, quando scrivete ingranditelo a carattere 48. Sarà più incisivo, più pericoloso, e perciò più interessante.
Ma cosa fare durante una guerra, quando la realtà stessa si estremizza e diventa infinitamente più drammatica?
Dal 7 ottobre immagazzino momenti. Ascolto molto. Documento. Per la prima volta nella mia vita scrivo la realtà, così com’è.
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Stiamo per congedarci dalla nostra figlia soldatessa, siamo venuti a trovarla alla base. La prima visita dall’inizio della guerra.
Mia moglie le consegna i contenitori pieni di cibo. Le sorelle più piccole scattano una foto assieme a lei. Il mio sguardo vaga. Attraverso la vetrata noto una soldatessa che si avvicina a un soldato. Sono distanti una decina di metri, che lei percorre veloce. Lui si muove verso di lei più lento. Più pesante. Più impolverato. Un attimo prima di toccarsi, entrambi spostano il fucile dietro la schiena così da potersi abbracciare. Si abbracciano a lungo. Poi scostano un pochino la testa per baciarsi sulla bocca.
Non piangevo dall’inizio della guerra. Non ci riuscivo. Ma qualcosa nel modo in cui lei gli ha carezzato la testa mentre lo baciava. Nel modo in cui lui si è lasciato andare tra le braccia di lei.
Papà? Mia figlia, la soldata, mi guarda sorpresa. Piangi?
Annuisco. Non ti preoccupare, papino, mi rassicura, sabato prossimo torno in licenza. Andrà tutto bene.
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La mia figlia minore mi telefona. Sente dei rumori in casa, mi prega di rientrare in fretta. Le rispondo che ci metterò mezz’ora e chiede che nel frattempo rimaniamo al telefono. Mi sussurra: qualcuno parla dentro casa. Le dico, va bene, continuiamo a parlare fino a che non arrivo. Sussurra, la batteria sta per scaricarsi. Allora metti il telefono in carica, suggerisco. Non posso, sussurra di nuovo, sono attaccata alla porta e il caricatore è distante. In che senso? Non capisco. Perché sei attaccata alla porta? Sono attaccata alla porta e tengo la maniglia, per impedirgli di entrare, sussurra, e io mi rendo conto che, anche se il 7 ottobre non eravamo in Israele, e anche se abbiamo cercato di proteggerla dall’orrore, qualcosa è comunque filtrato. Allora adesso riattacchiamo e tu mi richiami solo se le voci si avvicinano, le propongo. Accetta. Brucio un semaforo rosso. Quando arrivo, la casa è silenziosa. Apro la porta ed entro. Sono pronto al peggio. Non c’è nessuno. Mi precipito verso la sua stanza. Busso alla porta. Chiede chi è e le rispondo, papà. Apre, mi si butta tra le braccia, piange. Le dico che è stata molto coraggiosa.
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«Ciao Eshkol, sono Tomer, papà di Omri Schwartz, caduto a Gaza poco più di un mese fa. Questo foglio si trovava tra l’equipaggiamento che ci hanno restituito. L’ho letto alla cerimonia per il trentesimo giorno dalla sua sepoltura». Clicco sulla fotografia allegata e scopro che è un brano dell’ultima pagina di Nostalgia, contiene un elenco di buoni propositi per il futuro e termina con la frase «E poi, voglio tornare a casa».
Mi sono fermato lungo la strada mentre viaggiavo da Gerusalemme verso casa, in teoria per bere un caffè ma di fatto per restare in giro più a lungo: attenua un pochino l’oppressione al petto. Avevo intenzione di rispondere ad alcune mail di lavoro, e all’improvviso questo WhatsApp.
Quando guidi sotto la pioggia battente che infuria sui finestrini e passi sotto un ponte, di colpo cala il silenzio. Assordante. Così mi sento quando leggo il WhatsApp di Tomer, papà di Omri.
Lo rileggo. E anche il brano allegato. Mi manca l’aria. Tutte le promesse che Omri non potrà mai realizzare. Rifletto a lungo su come rispondere a suo padre. Alla fine scrivo: «Mi emoziona sapere che ha letto queste parole alla cerimonia per Omri. Vi mando un abbraccio, sono disponibile per qualunque cosa vi possa servire».
Il cielo ricomincia a piangere. I lavoratori del food truck piegano le sedie. Sono costretto ad andare a casa.
Questa guerra va avanti da cinque mesi ormai, calcolo, genitori perdono figli e figli perdono genitori, da entrambe le parti, e non ci sono segni che l’incubo stia per finire. Sulle colline i mandorli fioriscono in una meravigliosa nuvola candida e io non ho alternative, devo chiamare a raccolta tutte le risorse della mia immaginazione per credere che alla fine qui nascerà una realtà diversa.
Eskol Nevo