L’oro e la patria. Storia di Niccolò Introna, eroe dimenticato, di Federico Fubini

Storia di Niccolò Introna, eroe dimenticato
Scoprì che anche Mussolini rubava.

Qualche anno fa in un incontro al Festival della Comunicazione di Camogli ho sentito pronunciare, en passant, un nome a me sconosciuto: Niccolò Introna. Lo aveva citato un alto funzionario della Banca d’Italia, in un dibattito su come si è dipanata la vicenda della controversa storia economica del Paese nel dopoguerra. Introna era stato capo della Banca d’Italia in un momento decisivo: quando gli anglo-americani liberano Roma nel giugno del 1944, si rivolgono a lui perché prenda le redini dell’istituto. Si fidavano solo di lui, l’unico dirigente che non si era mai compromesso con il fascismo. Introna è nato a Bari nel 1868 in una famiglia con pochi mezzi, è entrato in Banca d’Italia a diciotto anni nel 1886 e ci è rimasto fino al 1946, salendo ogni gradino della gerarchia interna con un diploma da ragioniere e senza mai essere stato fascista. Eppure il suo nome era come cancellato dalla memoria nazionale. Non c’è una sua immagine dentro Palazzo Koch, sede della Banca d’Italia. Nemmeno nel «salone rosa» dove campeggiano i ritratti dei governatori, da Bonaldo Stringher (1900-1930) a Mario Draghi (2006-2011) e di diversi direttori generali, quale Introna era stato.

Perché il suo nome e il suo volto erano stati rimossi? Di quale colpa si era macchiato per essere punito con tanto oblio? Ho deciso di capirci di più. E ne è venuto un libro che, poiché parla della storia d’Italia durante il fascismo e all’alba della Repubblica, parla di noi: noi italiani del presente.
Scoprii presto che Introna, morto nel 1955, aveva un parente ancora in vita che lo aveva conosciuto molto bene: Massimo Corradini, nato nel 1932, di cui il banchiere centrale era stato il nonno materno. Ritrovai Massimo tramite Facebook, un architetto in pensione di confessione valdese, come suo nonno. Ricordava perfettamente l’infanzia con il nonno, le serate con lui al Teatro dell’Opera di Roma a sentire Beniamino Gigli. Era triste e arrabbiato che la Banca d’Italia non avesse messo un ritratto del nonno in una galleria di ex governatori (in effetti era stato “commissario straordinario”). Poi mi diede un dettaglio sorprendente: Introna alla morte aveva lasciato un mucchio di carte, che erano finite per decenni in una cantina ma lui, il nipote prediletto, aveva donato alla Banca d’Italia. Ora aspettavano di essere digitalizzate e rese disponibili. Non appena lo furono, mi resi conto che Introna non aveva lasciato “un mucchio di carte”: aveva un archivio di ottantamila pagine di documenti, anche riservati, che toccavano tutte le partite economico-finanziarie più delicate della storia d’Italia nel periodo fra il 1925 e il 1946, quando lui era agli assoluti vertici dell’istituto di via Nazionale.

Per capire chi fosse questo strano personaggio, ho scorso centinaia di pagine di rapporti riservati della polizia politica mussoliniana. Ho scoperto che Introna era antipatico a tutti, non lo sopportava proprio nessuno. Era «stretto e pignolo» – scrivevano le spie del regime – «non un uomo, ma un regolamento vivente, senza alcuna duttilità e larghezza anche minima di vedute». Alla fine degli anni Venti, da ispettore bancario, aveva sgominato una banda di faccendieri con il quali si era compromesso anche un gerarca vicinissimo al duce come Bruno Bottai. Il ministro delle Finanze Giuseppe Volpi, grande capitalista, aveva prima cercato di togliere di mezzo Introna assumendolo a peso d’oro nelle sue imprese. E poi, al suo rifiuto, di farlo licenziare. Non ci riuscì. Introna aveva concluso che Volpi usava il suo posto da ministro delle Finanze per strutturare l’evasione fiscale del suo impero industriale. Le piccole spie di regime origliavano le sue telefonate in cui si faceva beffe del fascismo (e ogni sua parola udita da dietro una porta finiva nei rapporti di polizia). I fogli di regime lo diffamavano con violenza inaudita. Lui teneva duro, zitto, al lavoro.

Perché non fu mai fatto fuori dal fascismo? La risposta, ancora una volta, era nei rapporti della polizia politica (scritti nello stile dei siti di gossip dei nostri giorni). Gerarchicamente sopra Introna, il governatore e il suo numero due erano uomini di nomina politica, tanto comodi quanto incapaci. Servivano per mettere a disposizione di Mussolini le riserve auree – scrive Introna in una nota personale che gronda esasperazione – «su semplice presentazione di un biglietto del duce». Lui, il ragioniere valdese, il «regolamento vivente», veniva tenuto lì benché antifascista, dato che serviva pur sempre qualcuno che sapesse dove mettere le mani per far funzionare la Banca d’Italia. Il suo era un classico esempio di meritocrazia all’italiana.

Ma questo forse è il motivo delle ottantamila pagine che quest’uomo ha lasciato alla morte. Lui schernito, deriso alle spalle, sopportato, detestato eppure indispensabile, non disse mai a nessuno che per tutta la vita, a sera, si portava dietro di sé le carte dell’ufficio. Anche le più delicate. Anche quelle da cui emergeva che il regime fascista in realtà era una cleptocrazia di stampo putiniano e che Mussolini stesso non esitava ad accaparrare denaro pubblico dai conti del governo a favore della propria famiglia. Perché anche il duce “teneva famiglia” (qui sotto, uno dei documenti ricollegabili agli affari opachi del duce ritrovate nelle carte di Introna).

E alla fine della sua vita, in un Paese ormai liberato e democratico, un uomo così meticoloso come Niccolò Introna non ha riordinato le sue carte, né le ha distrutte: ha passato silenziosamente il testimone, ha lasciato dietro di sé il suo enorme archivio come un muto messaggio nella bottiglia. Già, ma quale messaggio? E perché quell’uomo nel quale gli americani alla Liberazione ebbero totale fiducia, nell’Italia del dopoguerra fu accantonato e rimosso, anziché onorato?

Per capirlo, non ho potuto fare a meno di leggere le ottantamila pagine. E a partire da quelle cercare il seguito della storia in altri archivi: quelli del Counter Intelligence Corps americano a Washington, dei processi di epurazione agli alti papaveri del fascismo, dei libri dei conti di deposito presso le filiali della Banca d’Italia a Verona e a Brescia. Qui ho trovato le prime prove mai emerse che Mussolini, ehm, rubava il denaro degli italiani (qui sotto, le tracce di un conto intestato al figlio del duce Vittorio presso la filiale di Verona della Banca d’Italia e alimentato con fondi del governo italiano).

Ma soprattutto ho trovato le tracce delle battaglie che Introna condusse negli anni finali della sua vita in Banca d’Italia. Fu l’unico a opporsi ai nazisti, quando dopo l’8 settembre 1943 questi si presentarono a Palazzo Koch per portare via le 120 tonnellate d’oro che restavano nelle riserve dopo che gli ultimi dodici anni di Mussolini di tonnellate ne avevano dissipate ben 500. La strategia di resistenza di Introna si scontrò con la sottomissione del governatore di nomina fascista, Vincenzo Azzolini. Il rapporto di forza fra i due si ribalterà poi l’anno dopo, quando Introna diventa capo della Banca d’Italia liberata e Mario Berlinguer (padre di Enrico) porta Azzolini alla sbarra in quello che avrebbe dovuto essere un esemplare processo di epurazione.

Eppure Introna, al culmine della sua carriera dopo anni di umiliazioni, non aveva fatto i conti con una verità fondamentale. L’Italia dopo la guerra era sì democratica come lui l’aveva sempre sognata. Ma al bivio fra rompere con la tradizione corporativa e consociativa del fascismo e proseguire con essa, le élite del Paese avevano fondamentalmente scelto di proseguire. Con curve alterne, salite, discese, fino all’Italia di oggi. Tutti gli ostacoli a questa volontà di fondo andavano rimossi.

E Introna era un ostacolo: voleva un’Italia libera dal brodo di coltura di aderenze opache, di interessenze e commistioni, che era stato il tessuto connettivo dell’economia fascista e che si preparava a traghettare sotto le nuove bandiere. Lui aveva capito che si stavano gettando le basi di un paese debole, con una grande operazione gattopardesca di continuità culturale e del costume economico. Per questo sul suo nome è calata una cortina di silenzio. E per questo ho voluto scrivere «L’oro e la patria. Storia di Niccolò Introna, eroe dimenticato» (Mondadori), in uscita domani. Volevo ridare l’onore a quest’uomo, la cui storia risuona fino a noi.