E' molto utile rileggere, cent’anni dopo, sia il Manifesto degli intellettuali fascisti, sia il Manifesto degli intellettuali antifascisti. Non è solo il duello tra Giovanni Gentile e Benedetto Croce. Non sono soltanto due idee di Italia che si confrontano. Le parole scritte un secolo fa sono importanti per capire sia la temperie di un momento decisivo nella storia d’Italia, sia chi siamo noi oggi e quale idea ci siamo fatti del fascismo.
Prima però è necessario ricostruire il contesto. E il delitto.
Il pomeriggio del 10 giugno 1924 almeno tre assassini aspettano Giacomo Matteotti sotto casa, in lungotevere Arnaldo da Brescia, nel pieno centro di Roma. Uno è sicuramente Amerigo Dumini. La loro auto — una Lancia di proprietà di Filippo Filippelli, direttore del «Corriere Italiano », quotidiano velinaro del ministero degli Interni — attende con il motore acceso. Lo afferrano, cercano di trascinarlo verso la macchina, ma lui dimostra il suo coraggio anche nell’ultima occasione: si dibatte, si libera, tenta di mettersi in salvo, fugge lungo la scaletta che scende al fiume. Lo colpiscono alla nuca. Matteotti sviene. Lo portano di peso nella Lancia, che parte verso Ponte Milvio. Lui riprende conoscenza, perde sangue dalla bocca, tenta di liberarsi.
Uno dei sequestratori, probabilmente Albino Volpi, lo minaccia con un pugnale, poi lo colpisce, due volte, all’inguine e al torace. Gli assassini proseguono la corsa verso nord, scavano in fretta una buca in un bosco della Quartarella, a Riano Flaminio. La sera stessa, Dumini avverte il Duce. Due giorni dopo i quotidiani danno la notizia della scomparsa di Matteotti.
Comincia una tragicommedia di pessimo gusto: Mussolini finge di non sapere nulla; in realtà sa tutto. Mentre l’Italia è pervasa da un’ondata di commozione popolare, il dittatore chiede ai suoi di mettere in giro una voce: Matteotti è scappato all’estero. Poi la rilancia alla Camera, e impartisce «ordini tassativi» di cercare il fuggitivo «ai passi di frontiera».
Velia ha capito. Si fa ricevere da Mussolini e gli dice: «Eccellenza, sono venuta a chiederle la salma di mio marito per vestirlo e seppellirlo». Si racconta che il Duce sia rimasto impietrito. La svolta arriva quando viene ritrovata l’auto del sequestro: l’hanno portata in un’officina di Roma a farla sistemare, ha ancora i sedili insanguinati. Dumini viene arrestato alla stazione Termini mentre tenta di fuggire nottetempo, un suo complice è preso a Milano. Finiscono in carcere Marinelli, Filippelli, Volpi e il giornalista Pippo Naldi, implicato negli affari finanziari del fascismo.
Il regime è chiamato a superare la sua prima vera crisi. Praticamente gli uomini più vicini a Mussolini sono tutti in galera. Lui parla a Montecitorio, sostenendo che se qualcuno ha ucciso Matteotti l’ha fatto per danneggiarlo: gli avevano «gettato un cadavere tra i piedi», come scrive a D’Annunzio. Gli oppositori gli chiedono ovviamente di riferire tutte le notizie che conosce, ma il Duce, pallido e a braccia conserte, scuote il capo: non dirà più una parola. «Lei è complice!» grida il repubblicano Eugenio Chiesa; Bottai cerca di aggredirlo.
Con la complicità del presidente Rocco, Mussolini fa chiudere la Camera, approfittando della protesta delle opposizioni che hanno lasciato l’aula, e cede il ministero degli Interni a Federzoni. Si dimettono il sottosegretario Aldo Finzi e il capo della polizia Emilio De Bono. Cesare Rossi, vero braccio destro del Duce, si costituisce prima di essere arrestato. Teme di passare per capro espiatorio. Così scrive a Mussolini una lettera in cui si dichiara «esecutore di azioni illegali» ordinate da lui, e lo minaccia di rivelare tutto sulle aggressioni ad Amendola, a Misuri, a Forni, sull’irruzione in casa di Nitti e sui soldi versati a Dumini.
Mussolini sta male. Il conte Sforza, suo nemico giurato, affonda il colpo. Comunque la si rigiri, il responsabile dell’assassinio di Matteotti è lui: «Potete scegliere: o colpevole, come mai niun fu, o incompetente, come mai niun fu». L’ulcera con cui convive da tempo si è riacutizzata, a volte lo vedono piegato dal dolore.
Il 16 agosto 1924 viene scoperto il corpo di Matteotti. L’emozione nel Paese è enorme, una folla sterminata partecipa al suo funerale. Velia scrive al ministro degli Interni: «Chiedo che nessuna rappresentanza della Milizia fascista sia di scorta al treno; nessun milite fascista di qualunque grado o carica comparisca, nemmeno sotto forma di funzionario di servizio. Chiedo che nessuna camicia nera si mostri davanti al feretro e ai miei occhi durante tutto il viaggio, né a Fratta Polesine, fino a tanto che la salma sarà sepolta. Voglio viaggiare come semplice cittadina, che compie il suo dovere per poter esigere i suoi diritti; indi, nessuna vettura-salon, nessuno scompartimento riservato, nessuna agevolazione o privilegio; ma nessuna disposizione per modificare il percorso del treno quale risulta dall’orario di dominio pubblico. Se ragioni di ordine pubblico impongono un servizio d’ordine, sia esso affidato solamente a soldati d’Italia».
La vedova tenta ancora di distinguere tra le istituzioni e il regime, tra lo Stato e il governo, tra il fascismo e l’Italia. È lo stesso tentativo di Croce e del suo manifesto. Qualche segnale di libertà arriva, qualche funzionario pubblico reagisce, qualche magistrato pure. «La Voce Repubblicana» addita in Italo Balbo il mandante dell’assassinio di don Giovanni Minzoni (23 agosto 1923), Balbo querela, il tribunale assolve il giornale e il suo animatore, Randolfo Pacciardi.
Eppure il delitto Matteotti verrà usato da Mussolini come grimaldello per imporre la dittatura.
Le squadracce reagiscono alla difficoltà nell’unico modo che conoscono: la violenza. Fanno morti e feriti a Napoli, a Torino bastonano Gobetti, in Toscana commettono aggressioni e saccheggi. Rinfrancato, Mussolini tiene un comizio ai minatori del Monte Amiata: «Vi assicuro che il clamore degli altri è molesto, ma perfettamente innocuo… Il giorno in cui uscissero dalla vociferazione molesta, per andare alle cose concrete, quel giorno noi di costoro faremmo lo strame per gli accampamenti delle camicie nere». Gli estremisti del fascismo si sentono di nuovo forti: «Se non è sufficiente la scopa, si adopri la mitragliatrice», scrive Farinacci. «Con la carne di Matteotti/ ci faremo i salsicciotti», cantano le squadracce, e anche, sulle note di una canzone di successo, Mimosa: «Matteotti, Matteotti, quanta malinconia nel tuo sorriso./ Avevi un posticino in Parlamento/ te l’ha levato il Fascio in un momento». A Firenze viene incendiata la redazione del «Nuovo Giornale», a Roma si bruciano le copie dei giornali di opposizione, a Milano si tenta l’assalto al «Corriere della Sera».
L’opposizione tenta di reagire. Si esprimono contro il governo Orlando e Giolitti, e pure i generali Caviglia e Giardino. Sarebbe ipocrita tacere che è purtroppo questo il momento in cui grandi artisti come Giacomo Puccini e Luigi Pirandello aderiscono al regime. Ma altri uomini di cultura rispondono all’appello antifascista di Amendola, dallo scrittore Corrado Alvaro al pittore Felice Casorati. Ernesta Battisti, la vedova di Cesare, in polemica con Mussolini che intende usare il nome del marito, si reca al Castello del Buonconsiglio di Trento, per velare di nero — in segno di lutto per il martire socialista Matteotti — il cippo che segna il luogo dove fu impiccato il martire socialista Battisti. Dal carcere, Cesare Rossi, ex braccio destro di Mussolini, fa filtrare un memoriale: ogni delitto è stato commesso «per la volontà diretta o per l’approvazione o per la complicità del Duce».
Si è molto enfatizzato sull’udienza concessa da Mussolini ai trentatré consoli della milizia, che sguainano i pugnali per offrirgli la loro forza ma anche per minacciarlo; come se il Duce avesse reagito perché trascinato, costretto dai suoi estremisti. In realtà, superata la crisi grazie al terrore, al controllo delle piazze, al monopolio della violenza, Mussolini ancora una volta mostra di saper approfittare delle opportunità. Alla fine l’assassinio di Matteotti non è un danno per lui; anzi, è l’occasione per abolire definitivamente le libertà.
Il 21 aprile 1925, Natale di Roma, il quotidiano del dittatore, «Il Popolo d’Italia», pubblica il Manifesto degli intellettuali fascisti. Rileggerlo oggi è molto utile per rendersi conto che i moderni giustificatori, i relativizzatori, per non dire i laudatori del regime prendono lucciole per lanterne. Quelli che oggi spiegano il fascismo come reazione al bolscevismo, come dolorosa necessità per evitare all’Italia una rivoluzione sul modello sovietico, non hanno capito molto, anzi forse non hanno capito nulla. Non lo dico io; lo dice Giovanni Gentile. Gentile non nomina mai il comunismo. Quando il fascismo viene fondato, il Partito comunista in Italia ancora non esiste. Quando il fascismo si rafforza, i comunisti in Italia sono quattro gatti. Quando il fascismo va al potere, i deputati comunisti sono 15, contro 123 socialisti. Nell’Italia del 1922 non c’era alcun pericolo di una rivoluzione bolscevica, agitata semmai come pretesto per la dura e spietata presa del potere. Gentile non fa neppure questo. Gentile indica chiaramente il nemico nella «politica demosocialista». Gli avversari da schiacciare non sono i comunisti, neppure contemplati; sono i democratici e i socialisti. Il nemico è «lo Stato costituzionale», è «l’individualismo», è la pretesa di opporre l’individuo allo Stato, vale a dire la libertà.
Lo stile non è granché. Enfatico, retorico, esaltato. Non sembra scritto da quel grande intellettuale che oggi è considerato Gentile. Si loda il «carattere religioso» del fascismo. Si esalta quel massacro terrificante che era stata la Grande guerra. Si celebra la «fede energica, violenta» degli squadristi, che hanno bastonato, umiliato, ucciso persone colpevoli di coltivare idee diverse. E lo si fa brandendo il coltello dalla parte del manico, stando dalla parte del potere.
Poi certo nel manifesto la fase dello scontro viene presentata come transitoria, si formula l’auspicio di un periodo meno teso, in cui lo scontro viene superato, sia pure senza troppa fretta: «Nel seno stesso dell’Italia fascista e fascistizzata matureranno lentamente e potranno in fine venire alla luce nuove idee, nuovi programmi, nuovi partiti politici». Oggi noi sappiamo che la speranza di Gentile era in realtà un’illusione. Concessioni alla libertà, tanto meno all’opposizione, Mussolini non ne farà mai.
Meno di dieci giorni dopo, il Primo Maggio, festa dei lavoratori, «Il Popolo» e «Il Mondo» pubblicano il Manifesto degli intellettuali antifascisti, redatto da Benedetto Croce, su proposta di Giovanni Amendola, cui resta meno di un anno di vita. Firmano, tra gli altri, Giovanni Ansaldo, Sem Benelli, Emilio Cecchi, Carlo Cassola, Luigi Einaudi, Giustino Fortunato, Arturo Carlo Jemolo, Matilde Serao, Giuseppe Levi, Eugenio Montale, Luigi Albertini, Sibilla Aleramo, Luigi Salvatorelli, Gaetano De Sanctis, e poi Vito Volterra, Francesco Ruffini, Giorgio Levi Della Vida (tutti e tre rifiuteranno di giurare fedeltà al fascismo e perderanno la cattedra). Insomma, c’è il meglio della cultura italiana.
Il testo è più breve, asciutto, essenziale: «Contaminare politica e letteratura, politica e scienza è un errore, che, quando poi si faccia, come in questo caso, per patrocinare deplorevoli violenze e prepotenze e la soppressione della libertà di stampa, non può dirsi nemmeno un errore generoso».
Il testo di Gentile viene definito «un imparaticcio scolaresco, nel quale in ogni punto si notano confusioni dottrinali e mal filati raziocini». Ma quel che a Croce e ai suoi amici appare inaccettabile è definire il fascismo come religione. A quella visione ieratica del regime, don Benedetto non offre altra soluzione che la libertà. Non lancia una crociata, non stila un progetto di opposizione, non predica un’alternativa; difende la libertà di pensiero, di chiamarsi fuori, di dirsi contro. Per dirla con uno dei firmatari, Montale, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
Non basterà; e forse non poteva bastare. Non poteva
essere un documento, per quanto coraggioso — poteva costare bastonature,
e in effetti qualche firmatario come Ruffini fu bastonato davvero —, a
fermare le squadracce e la forza di una dittatura. Ma è già sufficiente,
quel manifesto, a sfatare un luogo comune: non soltanto non è vero che
gli italiani siano stati tutti fascisti; non è vero neppure che tutti
gli intellettuali italiani siano stati fascisti.
Aldo Cazzullo
(La prefazione di Aldo Cazzullo ai
Manifesti contrapposti del filosofo siciliano e di Benedetto Croce, editi
da Passigli. Due testi pubblicati mentre Mussolini stava uscendo dalla
crisi provocata dal delitto Matteotti)