Basta oltrepassare la soglia della vanagloria metropolitana di poche città alla moda e le retoriche celebrative dell’urbe millenaria, oggi molto tornate di moda, e ci si accorge che l’Italia è ancora oggi un Paese di paesi. A ben vedere, è proprio il paese, questa entità provinciale ancora così fragile e diffusa nella sua geografia secondaria, però così maggioritaria e così significativamente italiana, che resta tuttora il luogo comune più coinvolto nella realtà sociale, nel discorso pubblico, nelle scelte politiche ed economiche della nazione.
L’Italia, che è un mosaico di piccoli centri che ne formano l’architettura vivente, sembra proprio aver quasi del tutto rimosso l’idea stessa e l’evidenza storica del «paese». Sostituendola con surrogati più spendibili e alla moda. Si prenda ad esempio la costellazione di significati assunti dalla ambigua definizione borgo/borghi: è divenuta un passepartout buono per svincolare qualsiasi sciocchezza riguardi le aree interne, i piccoli e piccolissimi centri, i paesi e i territori periferici della provincia italiana in tutti i suoi angoli. Borgo/borghi è una definizione fungibile e priva di contenuti propri, che rinnega ogni identità specifica e ogni differenza reale, permettendo però di distorcerne a piacimento l’immagine riproponendola quotidianamente come un mantra anche nel linguaggio corrente.
Quale che sia la realtà, la crisi dei paesi ci riguarda tutti da vicino e si ripropone irrisolta, specie in questo particolare momento storico. Il costante svuotamento demografico e la «sparizione dei paesi» sono destinati a fare problema, a interrogarci sul presente e sul futuro da costruire in Italia: con o senza paesi? Intanto un dato di fatto. Su quasi 8 mila comuni, compresi tra questi le città capoluogo, i grandi centri metropolitani e quelli medi, distribuiti da Nord a Sud, ce ne sono ben 5.535 che restano oggi sotto la soglia critica dei 5 mila abitanti. Questi piccoli comuni, che sono propriamente ciò che abbiamo definito da sempre «paesi», rappresentano ben il 70% del numero totale dei comuni italiani, e ben 13 milioni di persone che nei paesi continuano ad abitare e a vivere. Nonostante declino demografico, perdita di servizi e attività fondamentali.
Dunque, i paesi pur gravemente dimidiati, restano l’entità geografica e amministrativa più capillare e meglio territorialmente distribuita, tipica della nostra tradizione insediativa di lungo periodo.
Ma cosa sappiamo, cosa succede davvero dentro le pieghe di questa geografia minore, lontana ma poi mica tanto dai grandi centri pieni di traffico e di consumi, scarsa di gente e di velocità, di modernità e di indifferenza verso il passato prossimo? Cosa sappiamo della vita concreta e attuale di questa Italia estrema? È una questione sulla quale oggi si accampa con accresciuta enfasi soprattutto l’attenzione sensazionalistica e la crescente spettacolarizzazione apportata dalla convergenza dei media (Tg, organizzazioni per eventi locali, rubriche turistiche, fiere e sagre, etc). Una falsificazione consolatoria che vuole che quella dei paesi sia ancora l’Italia delle tradizioni secolari, dei luoghi incontaminati e delle bellezze naturali e artistiche, l’Italia del pane buono e dell’ospitalità, dell’amicizia e della solidarietà, della vita lenta e del dolce far niente.
Nondimeno, la pubblicistica culturale e la riflessione incrociata da parte degli specialisti sui diversi aspetti del medesimo tema sono proporzionalmente cresciute in questi ultimi anni. Il notevole incremento di applicativi di ricerca da parte di studiosi e specialisti in ambito scientifico è dovuto al rinnovato interesse per il tema dei paesi e delle aree interne che fa capo a economisti, antropologi, sociologi, demografi, urbanisti, giuristi, amministratori e pianificatori. È questo l’indirizzo percorso da un volume collettaneo che raccoglie una serie di saggi unificati dal titolo Lento pede. Vivere nell’Italia estrema. Una ricerca sul campo a cura di Domenico Cersosimo e Sabina Licursi (Donzelli 2023, 189 pagine, 19 euro) che documenta ed esamina i timidi e contrastanti segni di resistenza e di presenza in vita che si registrano in una regione emblematica della crisi italiana dei paesi come la Calabria. In particolare nelle sue aree interne e nei «63 paesi lontani dai servizi di cittadinanza» interessati dall’esperimento della Snai, la Strategia Nazionale Aree Interne.
Lento pede è un lavoro a più voci (8 i testi raccolti, 11 gli autori) che postula domande cruciali: se «le aree marginalizzate» non siano ancora del tutto perdute, se «non sono spente» e «come abitare la rarefazione» di questa Italia «estrema». Si parte da un’avvertenza etica e semiologica:
«Per accorgersene però bisogna adottare altri sguardi, accendere i fari sulla vita che c’è nei paesi vuoti, sui bisogni, le attese, le aspirazioni di quanti restano, tornano e, più raramente, arrivano. Pochi ma sufficienti per autorizzare la speranza che i luoghi rarefatti siano abitabili».
Questa rivendicazione di principio che si legge nella nota metodologica firmata da Cersosimo è di per se una risposta agli eccessi e alle falsificazioni oggi più ricorrenti nella narrazione tossica sui cosiddetti borghi che si è andata stratificando in questi anni nei contesti sociali urbani, sino quasi a cancellare l’evidenza storica e la stessa realtà antropologica della gran parte dei paesi italiani, specie con riguardo al Sud e a regioni come la Calabria. Già lo stesso Cersosimo, ancora per Donzelli, aveva infatti coordinato e raccolto di recente altri sguardi e opzioni di ricerca intorno a un piccolo volume a più voci dal titolo Contro i borghi. Il Belpaese che dimentica i paesi (a cura di F. Barbera, M. Cersosimo, A. De Rossi), a cui Lento pede fa idealmente da contrappunto e continuazione. I connotati di queste trattazioni richiamano oramai una sorta di genere, nato a sua volta sul margine delle conoscenze. Una specie di montaggio che ricorda i tratti di certe ibridazioni paraletterarie e imitazioni testuali, una forma in fondo sufficiente a giustificare anche se stessa come altro «estremo» di un discorso sull’estremo della geografia sociale che identifica i paesi. Ma che vale anche per tutte le narrazioni sui luoghi sporadici e disabilitati, le aporie degli spazi in abbandono, certe sopravvivenze umane nelle terre di nessuno sparpagliate nelle diverse periferie interne o suburbane della nostra penisola.
È una operazione molto giocata sulla «situazione del margine», e sempre tesa all’indeterminatezza cognitiva. Un’avventura tra la scienza e l’incerto argomentativo che certe volte riesce meglio, altre volte peggio: in tema di paesi «insomma è diventato sempre più difficile separare la patologia dalla fisiologia, perché l’una e l’altra si sovrappongono, si contaminano, si confondono», come confessa Cersosimo nella sua introduzione. Ci sono pagine che ottengono il risultato di accrescere in chi legge la consapevolezza delle frustrazioni e delle disillusioni che toccano in sorte a coloro che ancora fanno stato in luogo nei paesi, vivendo da dentro il sequestro sociale di questa geografia dispersa, che appare vieppiù «normalizzata sul piano inclinato di un declino a cui è sempre più difficile sottrarsi».
Di fatto i paesi scontano oggi un tempo della storia che appare radicalmente diverso ed estraneo. La vita quotidiana e si confronta con le asprezze e i rigori della crisi e del «tramonto demografico». Tutti i paesi sperimentano la prepotenza del «dispositivo dello spopolamento» che continua a generare abbandoni e migrazioni inarrestabili. I quadri di mentalità di chi vi abita risultano perciò gravati da «un sentimento inedito della fine, con una versione inconsueta dell’irreversibilità, per affrontare la quale non sembra vi siano a disposizione memorie retrospettive efficaci» (F. Librandi). Proprio la recente sovrabbondanza e varietà di scritture e narrazioni dimostra che la vita vera dei paesi non è mai stata così reietta, dimenticata, disamministrata, oltre che misconosciuta ed erroneamente trascritta, come accade oggi in Italia. Via via sempre più ipotetico e diversificato, il luogocomunismo sui paesi/borghi è sempre più omologato alla accattivante e falsificante tendenza al marketing che punta al mirabolante, agli strumenti persuasivi della pubblicità, all’ovvia preveggenza della turistizzazione forzata.
Quello che è indispensabile per il passaggio dal paese di ieri alla dimensione moderna del «borgo», è infatti una sorta di dotazione «special». Che prevede la messa a catalogo di una serie di eccezionalità, che stanno in ciò che è piccolo, bello, eccellente, autentico, sostenibile, pittoresco, rilassante, poeticamente naif, esteticamente fungibile. E infine: smart.
L’attenzione calata da qualche decennio sui cosiddetti borghi è in realtà il derivato di una crisi di identità delle forme dell’abitare e del produrre, che nasce altrove. In generale è sovrapponibile al crescente rifiuto della complessità che accompagna il vivere in ambienti sociali stratificati e problematici, che trova origini e ragioni nelle grandi crisi epocali — clima, salute, lavoro, economia — e nelle trasformazioni sempre più massicce e incontrollate che investono la fisionomia degli ambienti metropolitani e la dimensione civile della forma urbana nel contemporaneo post-industriale.
L’enfasi su paesi e borghi ben rappresenta quindi una sorta di nevrosi sociale con sintomi di conversione. Mostra il tentativo di riposizionamento, altrove e con altri mezzi, delle logiche della metropoli, il trionfo di una boria sociale sempre più pericolosamente classista, ipocritamente urbanocentrica e fortemente sbilanciata a favore dello stile di vita tipico delle metropoli. Il «piccoloborghismo» e l’abbandono dei paesi di cui è affetta l’Italia sono il duplice riflesso della degnazione di una borghesia un tempo affluente e del panico di ceti medi in caduta libera. Col brusco risveglio dal lungo sonno pre-crisi smaltito dentro il fortilizio cittadino, i pericolanti del modello urbano si scoprono d’un tratto consumatori consapevoli, riflessivi e green, improvvisamente aperti al mito provinciale degli ozi di natura, interessati alle comodità low cost del ritorno nativo alla piccola patria, tra le mura ospitali del borgo. Ma solo se questo è di volta in volta autentico, diffuso, bello, digitale, slow, green, smart, etc. La composita platea sociale di nuovi (potenziali) utenti che si rivolge ai borghi e non ai paesi — identificati questi non come luoghi-rifugio, ma come insediamento tipico di comunità locali irreversibilmente al tramonto — è appunto quella stanca del declino economico, preoccupata per il recente allarme pandemico e climatico, per il caos sociale e la crescente insicurezza di città e contesti urbani divenuti «invivibili».
Insomma, i borghi come nuovo status symbol del tutto de-realizzato e disinvoltamente fungibile, «perché il termine borgo è bellissimo e non va demonizzato», secondo la ricetta che per Anna Rizzo, autrice de I paesi invisibili, dovrebbe essere presa sul serio come «Manifesto sentimentale e politico per salvare i borghi d’Italia» (Il Saggiatore, 2022). Resta così il dubbio che una nuova geografia dei cosiddetti borghi italiani possa davvero includere senza cancellare del tutto quella tradizionale e ben più numerosa e problematica dei paesi-paesi, evitando il fraintendimento corrente che i paesi per sopravvivere «debbano essere speciali». Il destino pare segnato: paesi-albergo o villaggi-relax, borghi «belli ma bisognosi». Ma solo se a questi si sottraggono o si cancellano — come semplici ingombri del passato — storia, limiti geografici, tratti identitari e rapporti stratificati col contesto economico e sociale locale.
Non c’è più spazio, sembra, per paesi normali, paesi e basta, in cui riprodurre la vita sociale in ambiti più ristretti e con margini di autonomia primariamente dipendenti dalla dimensione locale. La narrazione smart omologa invece le differenze, impone immagini patinate, elimina per magia ogni forma di conflitto, cancella il peso delle comunità e della storia, fraintende la realtà complessa delle relazioni locali, facendo di luoghi e persone una sorta di bazar dell’alterità prêt-à-porter, «un po’ un selfie del mondo» alla moda (F. Barbera, Contro i borghi).
Versione simmetrica e altrettanto autocompiaciuta del borghismo alla moda è quella opposta e ideologica dell’orazione civile, indirizzata «al paese che ci vuole». Non salveranno certo i paesi da spopolamento e anomia sociale gli inni nostalgici e lacrimosi per la sparizione di vetero-comunità da presepio, che fanno il paio con l’apologetica alla moda rivolta a forme di neocomunitarismo da ottimati. Quella elitaria dei nostalgici a oltranza e dei contemplativi affascinati dal senso delle rovine è una visione altrettanto grottesca dei paesi. Che ne agevola di fatto la lunga e inarrestabile decezione, senza opporre resistenze sostanziali allo spopolamento finale e alla loro metamorfosi in scenari di cartapesta per turisti a caccia di esotismi frugali o in ricettacoli per i neocatecumeni domenicali dell’integralismo verde. Una visione antistorica e falsificante, il cui sfondo antropologico ed etico è tanto impalpabile e fideistico quanto rivendicativo e ampolloso.
Ma davvero i paesi esistono in quanto «contesti appartati, diversamente appaganti»?; e davvero «si può aspirare a un futuro diverso da quello contratto e cupo delle tendenze demografiche e dell’indifferenza istituzionale, se si rovesciano i vincoli in opportunità»? E davvero «i limiti sono sempre opportunità valicabili»? E vale sempre la risposta che vede «la rarefazione demografica come alternativa alla congestione urbana»?; o «la lentezza come guadagno di tempo per abitare lo spazio; le pluriclassi utili per mettere a punto nuovi metodi didattici; la distanza dai poli di servizi per sviluppare forme di mobilità e accessibilità diverse»?. Il rischio è così quello di scivolare in una ridondanza retorica che sembra più volte sul punto di appagarsi in se stessa. Eppure, indicano stavolta a ragione gli autori di Lento pede, occorre comunque fare uno sforzo per «uscire dal solco». Già assorbiti nel grande gioco maggioritario del nuovo mondo che tutto omologa e travolge, i paesi per salvarne qualcosa dobbiamo «non guardarli più dal lato del passato». Rifiutandone attivamente la dimensione obbligata che ne fa unicamente asili di deprivazioni e povertà ostaggio del nostos e di congreghe del rimpianto «per quello che resta», digerendo finalmente il bolo delle ruminazioni post pasoliniane e la sterile retorica sulle virtù del vecchio mondo.
Lento pede sembra credere a una nuova immaginazione sociale in grado di riabitare i paesi. Bisognosi di «una nuova linfa», da attingere con «nuovi protagonisti, nuovi arrivi, nuove sorgenti di desideri» necessari per «abitare la rarefazione». Dare forme attive all’innovazione è possibile — viene detto — anche recuperando forme di immaginazione «retro-innovativa», in grado di mettere a frutto quel che c’era e quel che sarà. Certo è che «la ripresa delle aree interne non si realizza con la nostalgia, con la testa rivolta all’indietro, con l’aratro e la miseria. Al contrario sarà tanto più duratura quanto più farà ricorso a tecniche e approcci innovativi, alla creatività e alle tecnologie del presente, ma anche del passato: innovazione non sempre coincide con il nuovo, tantomeno con tecniche e tecnologie recenti. A volte innovare significa riadattare e ricontestualizzare tecniche tradizionali. Serve innovazione lenta, che guarda lontano, strettamente tarata sui bisogni essenziali dei residenti, adattata alla caratteristica dei singoli luoghi, generatrice di diverse opportunità e di tutto ciò che può favorire l’integrazione sostenibile tra attività umane e ambiente e la giustizia sociale», scrive Cersosimo.
In un’epoca di passioni tristi e incostanti, l’esortazione a riabitare i paesi risuona per ora come una petizione di intenti, con l’appello alla «speranza come principio di indeterminazione, come energia che per definizione è protesa verso il futuro» (F. Librandi). Insomma, c’è bisogno di un ethos trascendente proprio mentre il vivere sociale non offre soluzioni in vista. Un’utopia da ristabilire anche contro «la privatizzazione» di spazi, sentimenti e discorsi sociali, a cui opporre «la dimensione culturale, l’economia simbolica» del paese nuovo e «i modi in cui la speranza viene prodotta e mantenuta nei processi concreti di formazione della conoscenza».
Controfattualmente è pensabile che la fine del mondo dei paesi — inevitabile? — non coincida più necessariamente con «l’apocalisse culturale» — la fine del mondo— preconizzata negli studi di Ernesto de Martino, e che anche l’apocalisse culturale costituita dalla sparizione dei paesi e delle comunità locali tradizionali sia la fine di un mondo, e non la fine del mondo. Ovvero una condizione di passaggio verso un altro orizzonte antropologico e sociale in grado di percorrere quell’intervallo opaco «tra il non più e il non ancora» (F. Librandi). Non impossibile, forse. Più facile a parole, ma molto più complicato nella realtà, specie nell’orizzonte politico e nelle condizioni date. Se accade, quando qualche paese piccolo resiste e continua a vivere, è per merito di giovani istruiti e di gruppi di cittadini organizzati, di amministrazioni attive e consapevoli che non voltano le spalle al mondo così com’è adesso. Borghi o non borghi, i paesi possono salvarsi. Non tutti, ma solo così. Cambiare, per restare vivi.