Centrosinistra, davvero cambia qualcosa con la vittoria di Todde in Sardegna? di Alessandro Trocino

Il punto, con questa legge elettorale, dice giustamente Goffredo Buccini a Omnibus su La7, non è come fare le coalizioni coese, ma come fingere di farle. Il ritorno del bipolarismo resta fortemente imperfetto, anche per l’assenza dei partiti che si sono sgretolati, e solo una riforma della Costituzione in senso maggioritario, per esempio con una legge elettorale uninominale a doppio turno, potrebbe cambiare le cose, dopo il dannosissimo Porcellum che nel 2006 abolì il Mattarellum. Ma trovare un accordo per cambiare legge elettorale è sostanzialmente impossibile, per ora, e quindi si lavora con quel che si ha.

Fingere di essere coesi, dunque. Il centrodestra governa con tre idee radicalmente diverse di Paese, in politica estera, interna ed economia. Ognuno dei tre partiti ha la sua riforma, osteggiata dagli altri: la Lega le Autonomie, Fratelli d’Italia il premierato, Forza Italia la giustizia. Eppure governano. E il centrosinistra? Attualmente non esiste, se non nella forma fantasmatica del campo largo, non condiviso neanche nominalmente dai leader (Giuseppe Conte preferisce chiamarlo «campo giusto», che è quello dove lui è dominus).

Bisognerebbe chiedersi cosa manca al centrosinistra per governare. I voti, certo. Non vale, invece, l’obiezione di cui sopra. È vero, cioè, che Pd e M5s hanno posizioni opposte o divergenti sul molti temi, ma abbiamo appena detto che lo stesso accade per il centrodestra. Qual è il collante per la coalizione di Giorgia Meloni? Giorgia Meloni, innanzitutto. Una leadership carismatica, riconosciuta dall’elettorato, che ha premiato il suo partito (o meglio, lei), dandole un grande vantaggio sugli altri (esattamente come accadde con Silvio Berlusconi). I quali altri partiti (Lega e Forza Italia) si sono acconciati, per poter andare al governo, a trattare ognuno per la propria fetta di ideali politici e interessi strategici e si sono messi in scia, rosicchiando qualche spazio, qualche legge e qualche poltrona. A far traballare il tavolo, basta poco, naturalmente. I leader, da tempo, fanno una brutta fine, vedi Matteo Renzi e Matteo Salvini: quando acquistano troppo potere, prevaricano i loro partiti, troppo fragili, e si tagliano le gambe con l’arroganza. Ma finora, nel centrodestra, tutti stanno seduti al tavolo: a guardarli a mezzo busto sembrano composti, se non proprio in armonia, anche se di sotto scalciano.

Nel centrosinistra, la vittoria di Alessandra Todde in Sardegna ha riacceso qualche entusiasmo (si fa per dire). Si può pensare a un ribaltone? No, per ora, sempre per la stessa odiosa questione di prima: i voti. Il centrodestra non ha subito nessuna emorragia nelle urne. Ha solo sbagliato candidato e strategia. Eppure, un elemento nuovo c’è: Pd e 5 Stelle hanno vinto insieme.

Si può ipotizzare che si mettano insieme anche a livello nazionale? Non finché Pd e M5s rimangono sostanzialmente appaiati. Secondo gli ultimi sondaggi, i dem sono al 20 per cento, il Movimento al 15,6 per cento. Non c’è un leader forte, perché Elly Schlein non sembra avere il carattere e la tempra di una Meloni e Conte difficilmente otterrà le simpatie necessarie a far saltare il banco.

Oggi sembra prevalere nel Pd una sorta di prospettiva irenica, che immagina un grande abbraccio elettorale, magari con photo opportunity e magari con il ravvedimento operoso dei centristi.

Ma Conte non è della stessa opinione. La sua intervista di oggi al Corriere parla più di mille discorsi. A Monica Guerzoni che gli chiede se è la vittoria del campo largo o del M5s, risponde con chiarezza: «È la vittoria del campo giusto. Ed è la prima regione che il M5s conquista. Una grande soddisfazione per il nuovo corso del M5s e perché Todde è la prima donna presidente della Sardegna». E il Pd? Non esiste. Todde è una vittoria dei 5 Stelle. La Sardegna è la prima Regione del Movimento. E non importa se poi il Pd ha avuto quasi il doppio dei voti di M5s e non importa se Schlein abbia generosamente lasciato spazio alla candidatura di Todde. Conte, come spesso fa, appare più interessato alla rendita personale e di partito che alla coalizione.

Quando gli si chiede del campo largo, butta la palla in tribuna e poi spiega che bisogna «consolidare il metodo», cioè candidare i suoi e far vincere M5s. Il resto è bizantinismo e hybris, personalismi e tatticismi. Che Conte non sia il più affidabile dei leader, quanto a linea politica, è noto. Già alleato di Salvini, sovranista per l’occasione e fiero populista, oggi si dichiara «populista mite» e si atteggia a progressista. Ha scritto Francesco Cundari nella sua bella newsletter de Linkiesta La Linea, con un paradosso divertente, un po’ sopra le righe: «Con la stessa lieta disinvoltura politica e lessicale, se le circostanze lo richiedessero, domani potrebbe definirsi comunista, ovviamente nell’accezione di vicinanza al bene comune, oppure nazional-socialista, naturalmente nell’accezione di vicinanza all’interesse nazionale e sociale».

Comunque sia, qualcuno dovrebbe dire a Conte - come ha fatto lui, assurdamente, parlando di Zelensky - che ogni tanto dovrebbe indossare «abiti civili», dismettendo la mimetica con cui bombarda quotidianamente il Pd. Ma sarebbe tempo perso. Perché a giugno ci aspettano le Europee. Dove si vota con il proporzionale. Elezioni che rappresenteranno, di fatto, le primarie del centrosinistra tra Schlein e Conte. I quali si contenderanno la leadership dell’ipotetico campo, più o meno largo, più o meno giusto, che vorrebbero occupare subito dopo. Come dice giustamente Romano Prodi, Conte spera di diventare il leader del partito più votato e il candidato di tutta la coalizione. Comunque vada, difficile che ne esca un risultato che consenta la ricostituzione di una coalizione pronta a vincere e governare. Ma la politica ti sorprende sempre e gli elettori, a volte, anche.
 Alessandro Trocino