Ma è davvero sbagliata la stretta sui benefici fiscali per i «cervelli» che rientrano in Italia? di Luca Angelini
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Il Messaggero, lavoce.info
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Ma è davvero sbagliata la stretta sui benefici fiscali per i «cervelli» che rientrano in Italia?
editorialista
di Luca Angelini
Per il Fisco sono «impatriati». Per i titoli di giornale, «cervelli di ritorno dalla fuga». Il governo Meloni, come forse saprete, ha annunciato una stretta sulle agevolazioni fiscali a loro favore. Ossia sugli «sconti» sulle tasse per convincerli a tornare a lavorare in Italia. Come hanno sintetizzato Diana Cavalcoli e Massimiliano Jattoni Dall’Asén sul Corriere:
Attualmente, la legge (Decreto Crescita 39/2019 e L. 58/2019) prevede che su 1.000 euro di reddito prodotti in Italia da un lavoratore impatriato, solo il 30% (quindi 300 euro) concorrano alla formazione del reddito complessivo che viene poi tassato. Uno “sconto” del 70% valido almeno per cinque periodi di imposta e che sale al 90% per i trasferimenti al Sud, mentre è del 50% quello riservato agli sportivi professionisti. L’intenzione del governo è di ridurre al 50% questo sconto per tutte le categorie.
Cambiano, però, anche i requisiti per ottenere il beneficio fiscale: non basteranno più due anni di residenza all’estero per accedere ai benefici, ma ne serviranno tre. Bisognerà restare in Italia per cinque anni e non più per due; servirà una elevata qualificazione o specializzazione per beneficiarne; sarà necessario un nuovo rapporto di lavoro con un soggetto diverso da quello precedente. E viene introdotto il tetto massimo di reddito di 600 mila euro oltre il quale non si potrà ottenere lo sconto sulle tasse. Le agevolazioni saranno valide per cinque anni e non sarà più possibile estenderle per un ulteriore quinquennio in caso di acquisto di un immobile di tipo residenziale o qualora si diventasse genitori. Lo sgravio riguarderà solo i lavoratori ad alta qualificazione o specializzazione che rientrino nei livelli 1 (legislatori, imprenditori e alta dirigenza), 2 (professioni intellettuali, scientifiche e di elevata specializzazione) e 3 (professioni tecniche) della classificazione Istat delle professioni Cp 2011, attestata dal Paese di provenienza e riconosciuta nel nostro. La stretta non varrà per docenti e ricercatori rientrati dall’estero.
Il viceministro all’Economia Maurizio Leo (FdI), «padre» della riforma fiscale in gestazione, ha assicurato che nulla cambierà per chi rientra entro fine 2023. Ma non è bastato a fermare la furia degli expat intenzionati a rientrare. Alcuni dei loro sfoghi li ha raccolti e pubblicati anche il Corriere: «Ce ne eravamo andati perché in Italia non c’è futuro, ora che volevamo tornare, scommettendo sul nostro Paese, questo ci tradisce ancora una volta»; «Questo fomenta e conferma tutti i cliché del “sistema Italia” all’estero»; «Ancora prima di rientrare, l’Italia ci ricorda perché eravamo partiti».
Sono partiti petizioni online di protesta sia da parte di gruppi e associazioni di expat che da parte di Italia viva. Matteo Renzi, il cui governo aveva varato nel 2016 il «decreto Impatriati», poi sostituito dalle norme del decreto Crescita del 2020, ha attaccato: «Spero che Meloni ci ripensi: dobbiamo riportare i cervelli in Italia, non farne fuggire altri. Perché qui il primo cervello fuggito sembra quello di chi vuole peggiorare questa norma di civiltà».
Sul fatto che l’Italia abbia un problema di «fuga all’estero» di tanti suoi lavoratori, ci sono pochi dubbi. Anzi, come ha ribadito in questi giorni sul Corriere Federico Fubini:
I giovani emigrati italiani verso il resto d’Europa sono molto probabilmente tre volte più numerosi di quanto stimato finora e arrivano a una popolazione di 1,3 milioni di persone nell’ultimo decennio: quasi un milione in più rispetto a quanto registrato dall’Aire, l’Anagrafe degli italiani residenti all’estero. Così l’Italia, un anno dopo l’altro, sta perdendo nella competizione internazionale ed europea per attrarre talenti ed energie fresche. Sulla base dei dati di Eurostat, l’agenzia statistica europea, si può stimare che per ogni giovane che viene a stabilirsi in Italia da un altro Paese europeo ci sono diciassette giovani italiani che espatriano verso il resto dell’Unione europea o in Gran Bretagna.
Favorire un riassorbimento di quello che gli anglosassoni chiamano «brain drain», drenaggio di cervelli sembra, dunque, giustificato. L’economista Paolo Balduzzi, della Cattolica di Milano, in un editoriale sul Messaggero, invita però a un supplemento di riflessione: «L’occasione è buona tanto per riflettere sul contenuto di quell’incentivo quanto per interrogarci sui suoi effetti economici». Ossia, per tentare una stima di costi e benefici delle misure per indurre gli espatriati a trasformarsi in impatriati.
Per prima cosa, sembra a Balduzzi che riduzioni dal 70 al 90% della base imponibile siano, più che uno sconto, un «regalo». O, per usare le sue parole, «un trattamento fiscale oggettivamente generoso e chiaramente regressivo». E tale, per così dire, da indurre qualche poco edificante tentazione: «Per quanto riguarda gli effetti economici, quello più importante concerne l’effetto di medio periodo della norma: alla lunga, questi lavoratori resteranno nel nostro Paese o torneranno all’estero? Ebbene, le ricerche disponibili, basate sui dati dell’Agenzia dell’entrate, testimoniano come metà dei ricercatori torni all’estero alla fine del periodo di beneficio».
Significa che chi rientra spesso prende i soldi e ri-scappa appena può. Solita furbizia all'italiana? In verità, secondo Balduzzi, abbiamo davanti «un fenomeno dalla narrazione duplice: per i diretti interessati, segno che le condizioni di vita e lavoro nel nostro Paese sono talmente scarse che è comunque meglio tornare all’estero; agli altri italiani, invece, resta il sospetto che questa retorica nasconda la volontà di usare il proprio Paese solo per sfruttare i vantaggi fiscali previsti».
A Balduzzi, in ogni caso, la «stretta» appare sensata. E non soltanto per la necessità di far quadrare i conti del bilancio pubblico. «Ci si chiede se dal punto di vista della giustizia sociale, se non perfino di quella costituzionale, sia sostenibile una così evidente disparità di trattamento con chi, in questi anni, ha sempre lavorato e pagato le imposte in Italia. I lavoratori rimasti in Italia e paragonabili ai ricercatori e professori universitari in rientro, quelli cioè con un reddito per esempio superiore ai 50.000 euro, si apprestano a essere gli unici che non beneficeranno di alcuna agevolazione tra quelle inserite in manovra e che valgono ben 15 miliardi di euro, vale a dire riduzione dell’Irpef e decontribuzione. Miliardi che, peraltro, saranno prevalentemente finanziati dalle loro imposte (per ripagare il deficit contratto). Vale la pena di ricordare, infatti, che l’80% del gettito Irpef deriva da lavoratori dipendenti e pensionati, e che le fasce di reddito superiori ai 35.000 euro (solo il 12% del totale) pagano ben il 60% di questo 80%: significa circa 100 miliardi di euro, su un gettito totale dell’imposta di 200 miliardi».
Peraltro, la scarsa efficacia pratica dei provvedimenti per il «rientro dei cervelli» non è una novità, ricorda Balduzzi: «Nel 2010, il primo intervento in materia (la cosiddetta legge “Controesodo”) aveva l’esplicito e principale obiettivo di rimpatriare, in un Sud sempre meno popolato, giovani e imprenditori che creassero aziende e lavoro. Nonostante le eccellenti intenzioni, fu un fallimento sin da subito: pochi imprenditori ma molti lavoratori dipendenti, molti dei quali, come si è documentato, sarebbero poi tornati all’estero».
Al Festival internazionale dell’economia di Torino, nel giugno scorso, Giuseppe Ippedico, assistente all'Università di Nottingham, aveva presentato i risultati di uno studio, condotto assieme a Jacopo Bassetto, proprio sugli effetti del decreto Controesodo (che prevedeva uno sconto del 70% per gli uomini e dell’80% per le donne), del quale aveva dato conto anche in un intervento su lavoce.info. Alcune delle conclusioni erano queste: «Stimiamo che l’introduzione degli incentivi fiscali con la legge Controesodo abbia aumentato del 30 per cento i flussi di rientro dall’estero di individui aventi diritto agli incentivi (rispetto ai non aventi diritto). L’aumento, benché sostanziale, non è tuttavia sufficiente a colmare il divario con le partenze». Per calcolare i costi necessari per ottenere l’aumento dei rientri, Ippedico sottolineava la necessità di «distinguere i rimpatri in due categorie: gli individui al margine, cioè persone rientrate grazie agli incentivi e che lo non avrebbero fatto se non ci fossero stati, e gli individui infra-marginali, coloro che sarebbero rientrati in ogni caso. I primi generano un beneficio netto per il fisco, mentre i secondi generano un costo pari alla differenza tra Irpef integrale e ridotta».
A conti fatti, qual era il risultato dell’analisi? «Nel caso di Controesodo, l’aumento del 30 per cento si traduce in un rapporto costi-benefici all’incirca in pareggio: con alcune assunzioni, la perdita di gettito degli infra-marginali è compensata dall’aumento di gettito degli individui marginali. Tuttavia, l’effetto fiscale è negativo se 1) una quota sufficientemente alta di individui al margine re-emigra allo scadere degli incentivi (o prima) e se 2) la durata degli incentivi è troppo lunga o l’età media dei beneficiari troppo alta. Il motivo è che gli incentivi di lunga durata, nonché quelli concessi a individui sopra una certa età, riducono l’orizzonte contributivo tra la scadenza degli incentivi e la pensione, e quindi il beneficio fiscale. (...) La nostra analisi evidenzia come gli incentivi vadano disegnati in maniera oculata, con una durata non eccessiva, limitati al di sotto di una certa età e accompagnati da misure per ridurre la probabilità di re-emigrazione. (...). Infine, appare ingiustificato estendere gli incentivi ai lavoratori non laureati o poco qualificati».
Conclusione: «Gli incentivi fiscali sono uno strumento utile per stimolare il rientro di capitale umano, a patto che siano ben disegnati e accompagnati da misure per affrontare le cause dell’emigrazione (e della re-emigrazione allo scadere degli incentivi)».
Più o meno la stessa considerazione finale dell’editoriale di Balduzzi: «Sarebbe forse meglio, in questa fase storica, non dividere i cittadini tra residenti ed emigrati ma provare a concentrarsi sulle condizioni che rendono il Paese appetibile alla forza lavoro qualificata, sia essa italiana o straniera, e che renda le decisioni di mobilità frutto di libera scelta e non una fuga».
In fondo, è quel che ha detto anche il presidente Sergio Mattarella nel videomessaggio del 2 giugno scorso: «Oggi, lavorare all’estero, non dovrebbe più rappresentare, per nessuno, una scelta obbligata – non priva di disagi e di rischi – bensì una opportunità, specialmente per i giovani. È responsabilità della Repubblica far sì che si tratti di libera scelta».
Luca Angelini