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Il Beato Angelico, frate-artista tra ascetismo e un tocco di astrattismo
Il Beato Angelico, frate-artista tra ascetismo e un tocco di astrattismo
editorialista
di Roberta Scorranese
È possibile rintracciare la pittura astratta in un artista del Quattrocento? E, in particolare, in un frate-artista, che trascorse una consistente parte della sua vita ad affrescare conventi e a dipingere opere destinate alle chiese, in un fervore artistico pari al suo isolamento monastico dal mondo? Forse sì, se parliamo di Giovanni da Fiesole, meglio conosciuto come il Beato Angelico o Fra’ Angelico, nato poco prima del 1400 e celebre per gli affreschi nel convento di San Marco, a Firenze. Proprio una delle opere più suggestive nate in quest’ultimo luogo, lo scomparto dell’Armadio degli Argenti, è arrivata nel Museo Diocesano Carlo Maria Martini nella serie «Un capolavoro per Milano», esposta al pubblico fino al 28 gennaio 2024.
Ma andiamo per ordine e ripercorriamo la vita e il tempo in cui Fra’ Angelico è vissuto. Siamo agli inizi del XV secolo, Firenze si stava riprendendo da una serie di eventi luttuosi come la peste nera (quella resa famosa da Boccaccio), le carestie e le insurrezioni popolari come il Tumulto dei Ciompi. Il Rinascimento fiorentino prende avvio anche come contraltare alle burrasche sociali e politiche: l’arte e la cultura erano un vero e proprio strumento di potere. Basti pensare alla politica dei Medici, che diedero una fortissima spinta alla pittura, alla scultura e all’architettura. Guido di Pietro (questo il nome del frate) prese i voti nel 1418 circa nel convento di San Domenico di Fiesole. Aderì a una corrente religiosa particolare, quella dei Domenicani osservanti, che prevedeva che si osservasse la regola originariamente stabilita da San Domenico, consistente in povertà assoluta e ascetismo. E così la sua vita si svolse nel rigoroso rispetto dei voti religiosi e nella coltivazione dell’arte pittorica. Nel 1440 Cosimo il Vecchio decise di affidargli la decorazione del convento fiorentino di San Marco e nacque così uno dei cicli di affreschi più famosi del mondo.
Madonne in trono, annunciazioni, scene della vita del Cristo. Il tutto, però, attraverso una luce fortissima, quasi irreale, che illumina ogni scena come se ciascuna immagine fosse un’apparizione. Una pittura fortemente devozionale che ha trovato numerose interpretazioni originali. Una delle più suggestive l’ha data storico dell’arte Georges Didi-Huberman, il quale ha parlato di «immagini dissimili» in un saggio dedicato al frate domenicano pittore. Per «immagini dissimili» qui si intendono rappresentazioni molto lontane dal messaggio che si vuole trasmettere: i marmi dipinti ai piedi della famosa Madonna delle Ombre del Convento di San Marco non sarebbero un artificio pittorico, ma un preludio all’arte astratta, perché la forza del Cristo sarebbe racchiusa in quella energia pittorica dei riquadri picchiettati di rosso ruggine. Un po’ come farà secoli dopo Jackson Pollock, per capirci. Convincente o no, questa lettura risponde a una caratteristica precisa di Fra’ Angelico o Giovanni da Fiesole: una straordinaria visione spirituale che trova la sua strada in una pittura dirompente, apparentemente antica eppure innovativa e moderna se la si guarda con altri occhi.
Magari con gli occhi chiusi del raccoglimento, appunto, come quello che favorisce una cella monacale: appartato nel suo loculo, Beato Angelico è arrivato a concepire una pittura che annulla la distanza tra Dio e la sua incarnazione. Basti guardare l’Annunciazione della cella numero 3, quella in cui l’angelo annunciante e la Vergine si trovano a condividere lo stesso spazio fisico, sottolineato e delimitato da un’arcata che sembra annullare tutto il resto. Qui e ora, dice la pittura di Giovanni da Fiesole. Qui e ora, dice il Verbo. Ma c’è dell’altro. Nell’opera che viene esposta a Milano c’è l’uso innovativo della luce che il Beato Angelico riesce a fare, assimilando la lezione del più giovane Masaccio.
Il bianco, come ha osservato Melania Mazzucco, è il colore dell’Angelico e torna in molte sue rappresentazioni del Vangelo. Torna nel Cristo Deriso nella cella 7 del dormitorio di San Marco, piccolo capolavoro di simbolismo che non ha bisogno di orpelli, immagini, descrizioni. Angelico si rivolgeva ai domenicani, colti e conoscitori delle Scritture e dunque lavora con il togliere, lavora sui bianchi, può permettersi di alludere. L’uomo che in quarant’anni di attività fu assai prolifico benché, come racconta Giorgio Vasari, «essendo uomo di santa vita non lavorò mai per denaro». Poteva farlo. Fra’ Angelico era libero, cosmopolita tra le quattro mura della sua cella, affinò la sua tecnica pittorica anche grazie all’esercizio della miniatura, una disciplina molto rigorosa che poi lui mise a frutto nella pittura. Ogni dettaglio della sua opera risponde solo a sollecitazioni superiori. Invisibili. Fortissime.
Roberta Scorranese