Minervino: «Andarsene dalla Calabria dovrebbe essere una scelta, oggi (purtroppo) è un destino», di Mauro Francesco Minervino
Lo scrittore Corrado Alvaro, spesso citato a sproposito o per consolazione intellettualistica su questioni calabresi, scrisse questo illuminante distico nel 1925: «Mi fu sempre difficile spiegare che cos’è la mia regione».
A distanza di un secolo le cose si sono fatte persino più ingarbugliate, e neanche possiamo immaginare Alvaro alle prese con le possibili spiegazioni della complessità, ancora più caotica e confusa, aumentata a misura dei tempi, con la convergenza micidiale dei fenomeni che abbiamo davanti nell’attualità. Già nel libro La Calabria brucia (2009), avevo definito quella calabrese «la mafia perfetta». La «più ricca e più potente del mondo», che insieme alla politica collusa e stracciona che governa questa regione ha creato un solido e oliatissimo sistema di scambio, con cui domina «senza oppositori la regione dichiaratamente più povera, disperata e disamministrata d’Europa».
Politica in dosi omeopatiche
E la politica buona? C’è, ma è diluita in dosi omeopatiche. Il resto è assente o peggio latitante. Tutta piegata con rare e virtuose eccezioni alle convenienze, alle clientele, alle corruttele, se non al voto di scambio. La realtà della regione appare sempre più come un distillato di emergenze economiche e sociali — sanità, trasporti, istruzione, infrastrutture, ambiente. Certo, qualche intervento è stato fatto, soprattutto nell’azione repressiva della delinquenza organizzata, e siamo grati per questo ai magistrati in prima linea nella lotta al crimine organizzato, ma la realtà territoriale diffusa della intera regione è in profondo degrado, i piccoli centri, abbandonati a se stessi per i tagli o la soppressione dei servizi essenziali, scuola e sanità, vanno lentamente scomparendo svuotati da disagi ed emigrazione, i giovani vanno via, certe strade dei paesi costieri sono incubi da terzo mondo, le classi dirigenti e le élite urbane sopravvivono in feudi autosufficienti e parassitari, stili di vita pretenziosamente consumistici e affluenti convivono con sacche di povertà e divari sociali da terzo mondo, le città capoluogo vivono una vita asfittica e un provincialismo ottocentesco virato in esibizionismo catodico e digitale, le scuole dell’obbligo di anno in anno vengono soppresse, e anche dove si lotta in prima linea contro le n’drine e il malaffare politico l’organico della Procure è stato ridimensionato pesantemente, nonostante le crescenti pressioni della ’ndrangheta e la corruzione di politici e amministratori infedeli.
Una società debole e rattrappita
In un quadro così difficile e opaco, per costruire un progetto di rinascita democratica di questa regione non può bastare il ruolo di guida di pochi illuminati, l’egemonia professorale delle élite culturali, la proposta autoconsolatoria dei «sensibili», come spesso di sente dire: le alternative serie in politica vanno costruite ed elaborate in forme partecipate e consapevoli, magari anche fuori dai partiti tradizionali — da noi ridotti a organismi antidemocratici e rappresentati di grovigli di interessi impresentabili —, ma insieme alla società, che da noi è debole e rattrappita, e certo non si inventano da un giorno all’altro. Il tema è quindi chi costruisce l’alternativa e per chi, e quanta partecipazione attiva di cittadini, associazioni, gruppi sociali, sindacati organizzazioni di base, queste alternative possono o vogliono mobilitare e raccogliere per contribuire tutti insieme alla costruzione di un cambiamento reale e duraturo.
Terra di confine e di sperimentazioni
Una regione complessa, con luci incoraggianti e ombre, profondissime e oscure. Una realtà che non è il luogo di tutte le apocalissi ma certo è nemmeno il paradiso in terra. Un luogo del mondo di oggi, così com’è il mondo di oggi. Con una specialità: sorprendentemente, le sfumature e i chiaroscuri della Calabria di oggi, la sua mescola di antico e post-moderno, ne fanno una terra di confine e di sperimentazioni, ricca di colpi di teatro, di drammi sociali, di prepotenze esasperanti, prodiga di aberrazioni e paradossi sottilissimi e spiazzanti ma tutti dentro la riflessività del contemporaneo e spiegabili con le sue accelerazioni e i suoi movimenti disordinati.
Spesso quello che accade da noi si scrive Calabria ma si legge Italia. È rivolto, a partire da qui, al Paese che si agita impazzito nella normale e mostruosa complessità della nostra difficile congiuntura repubblicana. Una sorta di laboratorio antropologico avanzato, spesso in anticipo sui tempi, con fenomeni la cui investigazione è sempre più necessaria per sfondare i limiti, per comprendere meglio le sorti dell’Italia intera, e non solo la fisionomia in trasformazione della nostra società e del nostro Paese, io credo.
La Calabria invece non ama raccontarsi nei suoi contrasti, disambiguare, vederci chiaro, dirsi la verità; nelle sue rappresentazioni ama invece la mimesi, e continua a lasciarsi intrappolare da comodi luoghi comuni, dalle esagerazioni, dalla dismisura retorica, dalle iperboli che ne allontanano la conoscenza critica: ne è zeppa la comunicazione pubblica, anche quella intellettuale sempre oscillante tra l’apologetica e il conformismo. Ci piace dipingerci attraverso le categorie della straordinarietà, o paralizzati dagli arzigogoli, dai sofismi che alla fine atrofizzano l’intelligenza del mondo, limitano le capacità di immaginazione e di scelta, oscurano le prospettive e rinchiudono la realtà in nicchie autoreferenziali e fastidiosamente oracolari.
Tutta la politica in Calabria è inquinata dall’affermazione di quell’ideologia inveterata per la quale il privato vale più del pubblico, il mercato più dello Stato, il proprietario più dell’abitante, il cliente più del cittadino, il prepotente più del mite, l’arrogante più del solidale: risultato, una nemesi di natura e cultura a cui si è aggiunto il veleno del crescente disordine sociale — il consumo, l’eccesso, l’anomia, la noia — che si mescola all’insicurezza e al pericolo che dominano questi anni di crisi a cavallo dei millenni.
Andarsene non dev’essere un destino
Perdurando queste condizioni, andarsene dalla Calabria è un diritto sacrosanto; certo non dovrebbe essere un destino, soprattutto per i giovani, ma una scelta, un’opzione tra le altre. Certo per ora non lo è. Manca il lavoro. Il lavoro è altrove. I giovani fuggono via per quello, ma non solo per quello, se ne vanno anche perché intorno hanno il caos, comunità avvilite, l’assedio della noia. Ma allontanarsi non è un male in sé, si può sempre ritornare, oggi il mondo è per fortuna più grande e interessante del limitatissimo orizzonte paesano del passato. I giovani studiano e viaggiano, fanno esperienze arricchenti, conoscono un mondo più grande, più vario. Questo è un bene, incrementa le conoscenze, protegge dall’idealizzazione delle radici, dalle nostalgie patologiche. Spesso si idealizza un mondo che in realtà ci respinge e a cui ci ostina a rimanere fedeli. Spesso la ‘ndrangheta è un alibi per evitare di ragionare sulla complessità, per guardare dentro la società così com’è, e tentare di mettere le mani dentro il caos di una realtà in cui l’ordine delle cose appare sottosopra.
Festivalini e festivaloni (milioni buttati)
Siamo però a un punto morto. Migrano anche i giovani laureati in Archeologia, Arti e Conservazione dei Beni Culturali, e qui l’archeologia è ancora considerata una sorta di danno collaterale delle speculazioni edilizie, non una ricchezza identitaria da tutelare e valorizzare. C’è bisogno di investimenti e di maggiori controlli, di più concreti e ben mirati progetti e programmi dello Stato, con il potenziamento delle Soprintendenze, una maggiore salvaguardia di territori e risorse, la valorizzazione di storia, tradizioni, aree archeologiche, teatri, centri storici, musei. Una politica culturale seria e intelligente da parte della Regione, a favore di biblioteche, istruzione di qualità nelle periferie e servizi culturali efficienti nelle città e nei centri minori, mentre invece gli assessorati regionali continuano a elargire a pioggia milioni di euro per bandi destinati ad alimentare il circuito parassitario di festivalini e festivaloni estivi di dubbio gusto e di inutile sporadicità, al solo scopo di favorire clientele, congreghe di protetti e fantasiose e lucrative imprese del cosiddetto «turismo culturale».
La fuffa dei borghi e la realtà dei paesi
Fuffa. Fiammate che durano una settimana o due, giorno più giorno meno. Molti paesi, molte piccole comunità rischiano così definitivamente di essere annichilite e asservite al marketing, in un circuito chiuso di dipendenza e servitù che è il contrario della cultura. Nessuno chiama più un posto col suo nome proprio, e «borgo» è così diventato un artificioso sinonimo buono per tutto. Una sorta di «apriti sesamo» che enfatizza e identifica indistintamente sia le borgate più fatiscenti e decrepite che le antichità; i centri storici come le realtà cittadine e i paesini più microscopici e isolati. Il trionfo dell’ignorante e ipocrita glorificazione di una certa idea confusamente economicista dell’«autenticità», la mitologia urbana della grande bellezza sparsa a piene mani su — tutti? — i cosiddetti borghi, la favola delle loro enormi «potenzialità» per investimenti e sviluppo turistico, gli eccessi verbosi e le truffe mediatiche che si accumulano come strati in una narrazione effimera e a senso unico, anche in Calabria hanno ormai valicato ogni limite di buon senso, misura e realismo.
Chi conosce la Calabria e il Sud e ci vive sa bene che i vecchi paesi sono corrosi dal tarlo di vecchie e nuove povertà e da una crescente anomia sociale. Sono spolpati dall’emigrazione, che li priva progressivamente di energie giovani e di abitanti veri. Sono mortificati dall’abbandono e dall’incuria, che ne distrugge la bellezza di ambienti costruiti e paesaggi, cancellando un giorno dopo l’altro la dignità di secoli di storia per farne mucchietti di case vuote e pericolanti e posti per fantasmi. Lo stesso meccanismo che condanna i paesi all’agonia e li mette ai margini della vita sociale e produttiva della regione e del Paese, d’un tratto ipocritamente li riscopre come risorsa. Ed ecco che spuntano «i borghi». Posti buoni per ogni cosa, tranne per viverci.
Nei casi migliori qualcuno, annoiato dalla città, li scopre e li acclama iperbolicamente, e ne fa un suo buen retiro personale. Ma si tratta di élite: pochi misantropi, ricchi stravaganti, happy few stregati proprio da ciò da cui la gente di qua oggi scappa via, sopraffatta dalle difficoltà: solitudini, isolamento, mancanza di lavoro e di prospettive per il futuro. Eccessi, eccentricità per pochi, che però alimentano incessantemente la retorica mediatica che ormai suborna soprattutto i cosiddetti borghi della Calabria e dell’Italia del Sud.
Per fortuna, crescono anche progetti di recupero-rivitalizzazione dei vecchi paesi calabresi, partecipati da giovani e associazioni che si segnalano già per equilibrio, buone prassi e intelligenza. I progetti di ripopolamento dei paesi possono funzionare infatti solo se sono condivisi in prima persona da giovani innovatori e da gruppi di abitanti veri, vecchi e nuovi. Abbiamo bisogno di paesi veri, rianimati dalla cura di cittadini e persone attive e consapevoli. Non dal narcisismo effimero di event manager e dagli interessi di speculatori e mestieranti in cerca d’autore. Non puntando tutto sulla monocultura turistica (men che meno su quella che insegue il lusso). Ma lavorando con competenza e ostinazione su interventi di valorizzazione e riequilibrio di risorse ambientali, sociali e produttive, armonizzando lo squilibrio attuale tra aree interne e coste.
I paesi della Calabria e del Sud hanno bisogno di sostegno, di immaginazione, di aiuto, di pianificazione, del riconoscimento della loro unicità. In fondo c’è sempre un paese in ognuno di noi. Nietzsche ci ricorda che ogni paese «è come un diario figurato della nostra gioventù, che comprende le mura, la porta con le torri, l’ordinanza comunale, la festa popolare; e dice di se stesso, dello spirito della casa, della stirpe, della città. Dice che qui si poteva vivere poiché si può vivere; qui si potrà vivere perché siamo ostinati». La salvezza per luoghi così fragili può arrivare solo così.
Santi, filosofi e la nemesi del contemporaneo
I filosofi della natura, gli utopisti sociali, i mistici calabresi e molti santi — come Gioacchino da Fiore, Bruno di Colonia e Francesco di Paola — sono stati uomini appartati e riflessivi ma capaci di pensare il mondo, creazione, la logica della natura, i meccanismi sociali, quasi tutti montanari ed ecologisti ante litteram. Spiriti sensibili all’armonia e al bello naturale, erano uomini originari dei monti e asceti della vita silvestre. Vivevano da sapienti a contatto con boschi e acque, e nell’unità con la vita di piante e animali traevano beneficio senza sopraffazione. I sapienti e i santi della Calabria amavano la natura frutto della creazione divina e le foreste ombrose e fresche di cui si erano fatti essi stessi custodi con monasteri e santuari incastonati tra i boschi e le valli. La nemesi del contemporaneo in Calabria sembra aver scacciato dalla memoria e dalla storia anche queste figure della cura, queste àncore religiose di sensibilità antiche, questa umile e saggia religione della natura, della bellezza, dei luoghi del creato.
La priorità ambientale
La priorità numero 1 è quella ambientale, più complessa e riassuntiva di tutte le altre che affliggono questa regione, un dissidio che si manifesta brutalmente nell’abuso continuo consumato ai danni di risorse pubbliche e
di beni indisponibili del paesaggio, della natura, della storia. Quindi
ai danni di tutti, di ogni cittadino. È la pratica abitudinaria di una
limitazione generale della libertà a favore del prepotere delinquenziale
che ricorre all’accaparramento sistematico delle risorse,
allo sfruttamento, alla speculazione abusiva, agli incendi,
all’inquinamento delle coste e del mare, alle discariche di scorie e
veleni, allo sfregio della bellezza.
L’aggressione continua all’ambiente e al paesaggio è il frutto
avvelenato di una modernità che si nutre di un’ideologia apocalittica e
distruttiva che fomenta il disprezzo della memoria, della natura e
dell’arte, della bellezza e vivibilità dei luoghi collettivi a favore
del mercimonio e del consumo privatistico che ha elevato l’elusione e l’abuso a norma e consuetudine di vita quotidiana,
in una pratica sociale dello spazio comunitario e di svilimento delle
relazioni umane ormai largamente piegata a forme di scelleratezza
criminale e a condotte di vita contrarie alla salvaguardia del
patrimonio pubblico e al rispetto delle leggi. A cominciare da quelle a
tutela dell’urbanistica, della sostenibilità ambientale, della tutela
del paesaggio. È un compito che spetta ai calabresi, a tutti i
calabresi, e non ci sono alibi.
DA "IL PUNTO", rassegna stampa del Corriere della Sera, 22 Luglio 2023
Questo testo è tratto da un’intervista di Mauro Francesco Minervino al Corriere della Calabria