La chiamavano la «Tina vagante» perché era libera. Amata da una parte dell’Italia, invisa all’altra: troppo libera. Tanto che quando si trovò come presidente dell’inchiesta parlamentare sulla Loggia P2 a interrogare Giulio Andreotti non gli fece sconti: «Alcune testimonianze parlano di lei come di una persona che era a conoscenza della realtà della P2. Il capozona della P2 in Toscana, Ezio Giunchiglia, parla di lei come del “Grande babbo della P2”. Quali sono stati i suoi rapporti con Gelli?». E si trattava, per lei inquisitrice, non solo d’un compagno di partito democristiano ma di colui che solo sei anni prima era stato il Presidente del primo governo italiano della storia che nel 1976 aveva accettato lei, donna, come ministro. La prima dopo 115 anni dall’Unità d’Italia e 836 ministri maschi. Il primo ad appiccicarle quella specie di nome di battaglia, con un editoriale su La Stampa intitolato appunto «La Tina vagante», fu probabilmente nel 1984 Gianfranco Piazzesi: «Tutti, a cominciare da Pertini, hanno deplorato la diffusione tramite fotocopia del documento Anselmi sulla P2. I rappresentanti dei partiti di governo prima di pronunciarsi sul merito preferiscono conoscere che cosa pensano i 41 commissari e in che misura le loro conclusioni saranno ratificate nei due rami del Parlamento. Ciò garantisce una pur relativa tregua, ma sarebbe illusorio ritenere che questa seconda fase dell’affare P2 si concluderà con un altro innocuo polverone». C’era voluto davvero il coraggio di un leone (meglio: una leonessa) per accettare quella sfida.La "Tina Vagante"
I faccendieri
Basti ricordare quanto avrebbe lei stessa raccontato a Carla Stampa, di Epoca, sulle audizioni di generali, politici, finanzieri, alti burocrati, magistrati, faccendieri: «Hanno volti alterati dalla paura, sono visibilmente sconvolti. Non perché temono l’interrogatorio — anzi, per molti di loro è quasi una liberazione — ma per qualcosa che li terrorizza al di fuori di queste mura. C’è un pacchetto di morti, oltre a quelli noti, che impressiona...». «Minacce personali?», le chiese preoccupata la giornalista. «Diciamo che uno fa quel che deve fare». «Ha paura?». «Ripeto: uno fa quel che deve fare». E a proposito di quel «pacchetto di morti» ben più consistente dei decessi finora noti... «Mi sembra che sia evidente a tutti, ormai: nessuno sta scherzando in questa vicenda. Qui ammazzano».
Quanto pesarono sulla decisione di scegliere proprio lei alla guida della Commissione P2 il capo dello Stato Sandro Pertini e la presidente della Camera Nilde Iotti? Molto. E quanto pesò il fatto che una donna indagasse su quel mondo di massoni composto quasi esclusivamente di maschi legati da molteplici complicità? Certo Tina Anselmi pagò cara la sua cocciuta volontà di respingere ogni interferenza. Basti ricordare che, chiusi i lavori con diverse e contrastanti relazioni di maggioranza e minoranza (Craxi del resto era stato netto fin dalla sua conquista di Palazzo Chigi il 4 agosto ‘83: «Adesso questa storia della P2 è morta e sepolta»), Sandro Pertini lasciò il Quirinale per far posto a Francesco Cossiga (che definirà i suoi conoscenti iscritti alla P2 «grandi galantuomini» e «patrioti» per i servizi «resi al Paese») finché nel ‘92, rimossa e spostata da Arnaldo Forlani dal suo collegio di Castelfranco, venne esclusa dal Parlamento. Per sempre. Nonostante il rispetto che tanti italiani avevano per lei e che tornava a galla ogni volta che si parlava della necessità, finalmente, una volta o l’altra, di eleggere una donna al Quirinale.
Il debutto
Lei, sul tema, evadeva con un sorriso. L’aveva già provato, quel tormentone, quando era diventata appunto la prima ministra donna. E lo raccontò un pomeriggio di settembre seduta davanti al mare del Lido di Venezia dove aveva affittato un appartamentino per seguire la Mostra del cinema.
Come ricordava, il debutto? «Gli uomini erano molto imbarazzati. La novità era tale che non sapevano come gestirla. Ricordo una cena ufficiale per un prestito del Fondo monetario. A una certa ora Andreotti, che era il presidente del Consiglio, mi fa: “Allora Tina, andiamo?” E io: “Dove”? “Al Quirinale”. “A fare cosa?”. “Ma come, non hai l’invito?”. “Invito? Mai visto”. E via a cercare l’invito all’ufficio protocollo, al cerimoniale, al ministero... Niente. Finché Andreotti tira fuori il suo cartoncino e fa una risatina delle sue». Cosa c’era scritto? «”L’invito è strettamente riservato agli uomini”».
Al ministero del Lavoro, raccontava, c’era già stata come sottosegretario: «Vennero in delegazione nella mia stanza: “Scusi, non sappiamo come chiamarla”. “Ma per favore!”, risposi, “chiamatemi come vi pare, signor ministro o signora ministra, basta che non restiate lì imbambolati. Era anche un problema linguistico. Per non parlare della toilette a Palazzo Chigi, prevista solo per i maschi. Insomma: ogni piccola cosa era lì a ricordarmi che ero una mosca bianca».
Pensava che se l’Italia fosse stata di più in mano alle donne sarebbe stata amministrata meglio? «Sì, assolutamente sì. Le donne hanno più attenzione al bene comune. E sono più disponibili a battaglie politiche trasversali. Va detto: le donne hanno di più il senso del potere come servizio. Di qualunque schieramento siano». Tutte convinzioni che si era fatta battendosi per anni sul fronte della difesa delle donne sul posto di lavoro. Partendo da quelle conosciute nelle filande dell’area di Treviso, «un mondo di poveri con le malattie dei poveri, pellagra, tubercolosi...» dove «i contadini facevano il pane tre o quattro volte all’anno, nelle grandi feste» perché «il frumento era la risorsa principale e dovevano venderlo tutto per campare» e «il capofamiglia alla sera mangiava un uovo sodo, la moglie mezzo» e «i ragazzi crescevano a polenta e fichi o polenta e latte».
Era lì nelle filande, dopo la Resistenza vissuta da staffetta partigiana, che aveva visto miseria e sfruttamento: «Le ragazze ci lavoravano dodici, tredici ore al giorno, sfruttate e malpagate. Il sabato, dopo cinque giorni di lavoro, perdevano la pelle delle mani, avevano le unghie lessate. Dovetti conquistare la loro fiducia. E non fu facile, perché le sindacalizzate erano licenziate». Certo è che sua madre Norma (dettaglio strepitoso per una donna fedele alle regole come Tina) e sua nonna che mandava avanti un’osteria e fumava la pipa sarebbero state orgogliosissime di come la loro ragazza si presentò da signora ministro: «Non posso fallire. Non per presunzione, Dio me ne guardi. Ma perché un mio fallimento non coinvolgerebbe solo me. Io sono soltanto lo strumento attraverso il quale si è superata una barriera, è caduto un tabù: le donne possono e debbono partecipare al governo del Paese. Fallissi, mi dimostrassi non all’altezza del compito che mi è stato affidato, coinvolgerei nella mia caduta importanti conquiste che non appartengono solo a me o alle donne in genere, ma all’intera società italiana. Sono conquiste civili. Quindi, costi quel che costi, non posso sbagliare».
Gian Antonio Stella, Corriere della Sera 24 Aprile 2023