«Donetsk-Kherson, la notte di Natalia».
Andrea Nicastro, "L’Assedio. Il romanzo di Mariupol"
[…] Veronika, sua sorella, l’aveva capito prima di tutte, ma nessuna la prendeva sul serio. Avevano tutte le teste ficcate dentro lo schermo dei cellulari e non la ascoltavano.
«Ho detto che dovete nascondervi. Che i soldati non vi devono più vedere. Datemi quei telefonini. Fino a che non obbedite non ve li restituisco».
Il primo apparecchio lo strappò facilmente dalle mani della ragazza più grande, la seconda tentò di metterlo al riparo con un balzo verso la scala.
«Vieni qui immediatamente, ti dico».
La voce della donna si incrinò.
La ragazzina capì che non era il momento di scherzare e si avvicinò tendendo il telefono verso la madre. Come per lasciarla a distanza.
«Se arrivano ancora i soldati, voi dovete nascondervi. Capito? Andate in cantina dietro alle conserve, dove c’è la legnaia».
Natalia non capiva. Le ragazzine sentivano solo emanare dalla mamma un’enorme tensione, come quando il papà aveva annunciato la chiamata per l’arruolamento. Anche di più. Questa volta, la voce sembrava l’assolo di un violino stridulo. Le tre giovani non avevano capito. La nonna, sorda e affondata nei cuscini della poltrona, sì.
Quando le bambine andarono a dormire, Natalia, dopo averle baciate e consolate per il sequestro dei telefonini, per il papà lontano e la mamma nervosa, andò a parlare con la sorella. La donna stava finendo di lavare i piatti.
«Che cosa ti è preso? Perché hai spaventato così le ragazze?»
«Sei proprio imbecille. Che cosa ti è venuto in mente di parlare con i soldati? Dovevi startene tranquilla in casa tu, altro che sciroppo di mirtilli. Con le mie figlie, poi? Le mie figlie! Ti rendi conto?»
La sorella stringeva le mascelle e deglutiva per ricacciare indietro le lacrime.
Natalia era abituata ad avere gli sguardi degli uomini addosso. Non ci faceva caso. Dopo la volta del pane, altri soldati erano passati dalla villetta unifamiliare della sorella e ogni volta si era sentita in dovere di accoglierli, far capire che in quella casa stavano tutti dalla loro parte. Le sembrava anche la mossa intelligente. Il cognato combatteva contro di loro solo perché era stato obbligato, ma anche lui era contento che quel «governicchio corrotto al servizio dell’Occidente» venisse finalmente spazzato via. E allora, nonostante il freddo, quando sentiva una colonna passare, usciva di casa e, da dietro lo steccato, agitava la mano e sorrideva ai soldati sui mezzi. Quel pomeriggio, prima della scenata della sorella, era andata a salutare un blindato che pattugliava in solitaria. Il mezzo si era fermato e i soldati, che viaggiavano semisdraiati sulla corazza, erano saltati giù a chiacchierare.
«Com’è questa zona? Amichevole? C’è qualcuno della resistenza?»
Natalia aveva chiamato le nipoti e aveva chiesto loro di portare lo sciroppo di mirtilli. Lei aveva ventitré anni, le nipoti tredici e dodici, i soldati dai diciannove ai venticinque: potevano essere un gruppo di amici, cugini, fratelli, vicini di casa. Un soldato era piccolo e largo, la sigaretta appesa al labbro, invece del casco come gli altri teneva il berretto arrotolato sul capo come un pirata. Natalia capiva che voleva fare il bel tenebroso e cercò di parlare agli altri più che a lui che se ne stava appoggiato sull’avambraccio, disteso sulle prese d’aria del blindato a scaldarsi. Fossero andati tutti assieme al Luna Park, il pirata avrebbe di sicuro dato il colpo più forte al pungiball. Non era il capo, ma era come se dominasse tutti dal suo trono strafottente.
Il sergente portava occhiali rettangolari, piuttosto noiosi, ma nonostante sembrasse uno che era stato molto sui libri, non era a suo agio con le parole. Lasciava la conversazione a quello con la giacca a vento mimetica tesa sulla pancia. Era grassoccio e col naso butterato, nessuna avrebbe voluto ballare con lui, almeno da sobria. L’autista era l’unico ad avere il sorriso simpatico.
«Quanti siete in casa? Dov’è il papà?»
La madre nascosta dalle tendine si mordeva il labbro. Vide un soldato fare il giro del giardinetto, un altro osservare le case dei vicini, quello sdraiato sul blindato mettersi la mano nei pantaloni. «Non hai capito vero che quei soldati possono essere pericolosi?»
Il rumore di un mezzo che si avvicinava gelò la donna mentre si asciugava le mani.
L’ultimo singhiozzo del motore lasciò tutto lo spazio del mondo all’angoscia della guerra. D’inverno, nella steppa, il gelo della notte crea un vuoto: i passeri stanno nel nido con le piume arruffate e il becco ben chiuso, i cani non abbaiano per paura che gli cada la lingua, nessun umano passeggia, i vetri tengono il freddo fuori e le voci dentro. Ma di solito il silenzio è vivo, fatto di luci, comignoli che fumano... quello era diverso. Era il mutismo impaurito del coprifuoco, un nulla che dà i brividi. Le finestre erano accecate da tende o cartoni incollati ai vetri. Pochi punti di luce sfuggivano qua e là e parevano lumini di cimiteri fluttuanti. Il mondo del giorno era svanito assieme alla luce per proteggere se stesso. Le donne erano sole, nessuno poteva sentirle.
[…]
In quell’istante vuoto, la loro casa divenne una iurta, nel mezzo della steppa, sotto un cielo immenso e indifferente. Lei, la sorella, le due nipotine e la nonna. Al buio, nella grande pianura gelata dove correvano lupi selvaggi, zanne nere come canne di kalashnikov.
Natasha capì. I passi, il vociare scherzoso che dichiarava le sorsate di vodka, la mano sbattuta a colpi intermittenti sul legno della porta. La sorella indossò un cappotto imbottito e, invece di aprire la porta, girò ancora il chiavistello.
«Cosa volete?»
Era chiaro.
La donna premeva le mani sulla porta […]. Di fianco a lei arrivò anche la nonna con indosso la vestaglia a fiori, sdrucita, con fiocchi di materiale sintetico che sfuggivano dalle cuciture. Babushka si appoggiò alla porta di schiena, le gambe leggermente in avanti, le pantofole come puntelli.
«Possiamo offrirvi due taniche di benzina!»
«Con quello che valgono oggi. Ne avreste abbastanza per scappare fin dove volete».
«Ottimo scambio, no?»
[…] Babushka restò con la bocca aperta senza un fiato. La spina dorsale sentiva il pannello di formica della porta e al di là il freddo delle bocche dei fucili. Potessero queste mie ossa entrare nei cardini, essere d’intralcio, bloccare i mostri che sono là fuori. Potesse questo vecchio corpo stendersi sopra la casa e proteggerla dal tetto alla cantina con tutti i suoi germogli dentro.
Veronika vide il suo stesso abisso negli occhi della nonna.
«Non ci sono. Le bambine sono andate via».
«Apri».
«Sono in città dalla zia».
«Apri».
«Andatevene».
«Apri».
«No».
«Guarda che fa freddo qui».
«No».
«Facciamo così. Facciamo che decidi tu. O ti lasciamo le taniche davanti alla porta così non ti impuzzano casa oppure te le rovesciamo sotto la porta e diamo fuoco».
«È semplice» ghignò uno dei soldati.
«Sì, è semplice».
I soldati ridevano e si davano grandi pacche sulle giacche.
«Allora? Aprite!»
Un colpo, forse un calcio, fece sobbalzare Veronika.
La donna si mise di spalla, puntando i piedi contro la porta, pronta a resistere. Anche la nonna fece forza sulle gambe nell’atto di frenare.
«Che succede?»
Babushka vide Natalia spuntare dalla scala della cantina. La ragazza aveva gridato con la voce più ferma che avesse. In pochi passi arrivò di fianco alle due donne e appoggiò le mani sulle loro spalle. Non le stava davvero toccando, solo le sfiorava. Avvicinò la bocca alla porta e senza urlare cercò di parlare ai soldati.
«Qui siamo dalla vostra parte. Mio marito è a Mariupol a combattere contro i nazisti».
«E l’uomo di casa, qui? Con chi combatte? Apri o verso la benzina».
I soldati entrarono senza neppure guardarle. Armati. Con i mitra puntati al suolo fecero il giro della casa. Gli anfibi bagnati lasciarono impronte di fango nelle camere del piano terra, nella dispensa, aprirono gli sportelli della cucina, andarono al piano di sopra dove dormivano le bambine.
[…] Le piccole non c’erano. I letti erano rincalzati, coperti da due grandi coperte patchwork di lana. «Le ragazze non ci sono» gridò uno dalla camera. «Una sola tanica, allora... Non ci lasciate scelta».
«Natasha, per favore, dimmi cos’è successo». Pavel sentiva il respiro della ragazza come un’accusa. «Natasha, guarda che puoi dirmi tutto. Voglio solo aiutarti, ma se non parli...»
L’ultima volta che Natalia aveva tentato di parlare era stato inutile. Era stato con il terzo dei soldati che era entrato nella camera della sorella. Era l’autista, il più giovane dei cinque, quello dal sorriso simpatico.
«Ti prego, ti prego. Non farmi male. Tu sei diverso da loro».
Il soldato esitò per un attimo, poi la colpì con la mano aperta a tutta forza e gridò qualche insulto in modo che i compagni di là lo sentissero.
«Pavel, è successa una cosa».