LUIGI DI MAIO. INSIEME PER IL FUTURO, INSIEME PER IL TERZO MANDATO

Al primo incontro con il Beppe Grillo spiritato e mefistofelico degli esordi, Luigi Di Maio arriva così, secondo la sua stessa descrizione nella precoce autobiografia «Un amore chiamato politica»: «Immaginate me, giovane di provincia, jeans e camicia, capelli normali, occhi normali, mai fumato una sigaretta nella vita, ligio e composto». Noi lo vedemmo proprio così, i primi giorni del suo sbarco a Montecitorio, nel marzo del 2013, ventiseienne. Senza più jeans, ma vestito impeccabilmente e incravattato, le guance lisce da bambino, profumato di dopobarba, i capelli a spazzola, lo sguardo caparbio da ragazzo ambizioso. Ci confrontammo e, dopo qualche giorno di studio interlocutorio, sentenziammo, con la superficialità abituale dei giornalisti («siete una casta!», dicevano loro, rifiutando di stringerci la mano), provvidenzialmente corretta dalla sagacia istintiva dei cronisti parlamentari (mentre Riccardo Fraccaro ci guardava con disprezzo dai divanetti): «È un democristiano, un doroteo. Il più democristiano di tutti. Sopravviverà ai 5 Stelle e finirà in qualche partito della scatoletta di tonno, magari in Forza Italia».

La realtà si sarebbe incaricata di smentire la profezia nel dettaglio, ma in fondo anche di confermarne il senso. Luigi Di Maio ha vissuto mille vite. All’inizio è il «bibitaro» di Pomigliano D’Arco, come lo descrivevano gli avversari, «il parvenu della politica», l’enfant prodige dei meet up, il nemico dei congiuntivi. Poi il giovane rampante passa attraverso mille errori, successi e cambi di posizione: incorona Giuseppe Conte (su indicazione di Alfonso Bonafede); elimina grottescamente la povertà, dall’alto di un balcone; chiede l’impeachment del presidente Mattarella; associa Pinochet al Venezuela; chiama Xi Jinping con il nome di Ping; confonde Hamas con Anp; chiede di uscire dall’Europa (2015), poi di uscire dall’euro e di tornare alla lira (2017); invoca il «superamento» della Nato, dicendo che «è da pazzi portare truppe ai confini della Russia»; diventa salviniano e trumpiano; accusa il Pd in un video registrato di essere «il partito di Bibbiano che toglie bimbi alle famiglie»; incontra i gilet gialli con l’amico (ex) Alessandro Di Battista, creando un mezzo incidente diplomatico con la Francia; organizza, per Conte, la via cinese della Seta.

Tutto questo una ventina di vite fa. Poi Di Maio comincia una lenta opera di ricostruzione, di ripulitura della sua reputazione. Scrive al Foglio, giornale fieramente anti 5 Stelle, per accreditare se stesso come leader maturo, consapevole degli errori del passato e perfino garantista. Si scusa, o quasi, per le parole su Bibbiano e per avere alimentato la gogna mediatica contro l’ex sindaco di Lodi, Simone Uggetti. Si costruisce un profilo da statista. Da populista anti Ue e anti Nato, filocinese e filorusso, diventa iperdraghiano, atlantista e europeista. Da qualche tempo la stampa lo acclama e una parte della politica lo usa per scardinare quel che resta del Movimento. Lui va avanti dritto come un fuso, a forza di duelli, come ha sempre fatto. Sono epici gli incontri e gli scontri con Alessandro Di Battista, con Matteo Salvini e con Giuseppe Conte. Il suo più che un «uno vale uno» è sempre stato un «uno contro uno». Ma quel che conta è che Di Maio imbocca una strada meno accidentata, più rispettabile, perché anti populista. Come scrive il direttore del Corriere Luciano Fontana, «accetta la prova del pragmatismo, delle compatibilità, delle complessità. Capisce che il nostro mondo è europeo e occidentale e non quello degli autocrati o dei caudilli sudamericani». Lezione che invece Conte dimostra di non avere appreso visto che, nella sua ansia di accreditarsi come uno del Movimento, insegue populismo e demagogie antiche.

C’è un Di Maio istituzionale, che procede per interviste e comunicati, e un Di Maio carsico, invisibile, che lavora appoggiandosi a una comunicazione d’assalto (prima Rocco Casalino, poi Augusto Rubei e Beppe Marici), con veline a raffica e la mobilitazione permanente di un drappello di fedelissimi pronti, come da tradizione M5S, a sfornare note e interviste a suo sostegno e, se necessario, a denigrare e colpire i suoi avversari. Il minimo indispensabile per un politico che deve sapersi barcamenare in quelle case matte rissosissime e gonfie di narcisismo leaderistico che sono i partiti. Il Movimento non fa eccezione, anzi, con l’occultamento delle correnti, ha reso più viscido e incontrollabile il fenomeno delle divisioni interne.

Lo scontro con Conte è l’ultimo atto di un duello per la leadership che va avanti da molto tempo. Le avvisaglie ci sono con la sfida del Quirinale, quando Di Maio contesta violentemente la soluzione escogitata da Conte (ma accettata inizialmente anche da Salvini e Letta) del capo dei servizi segreti Elisabetta Belloni al Colle: «Non si mette un nome così autorevole nel tritacarne». L’ultimo atto è di queste ore. Di Maio se ne esce violentemente contro la gestione Conte che ha portato a un crollo alle Amministrative (vero, anche se lui portò il Movimento dal 33 per cento delle Politiche 2018 al 17 delle Europee 2019). Di fronte alla reazione stizzita di Conte e dei suoi, il ministro degli Esteri rilancia, mettendo sulla bilancia le obiezioni del partito all’invio di armi, con la parlamentarizzazione imminente del dissenso. Una mossa pericolosa, quella del leader M5S, perché mette a rischio il governo e lo divide sulla politica estera in un momento così delicato. Ma Di Maio ci mette il carico. Fa scrivere in un comunicato: «Vengo accusato dai dirigenti della mia forza politica di essere atlantista ed europeista. Lasciatemi dire che, da Ministro degli Esteri, davanti a questa terribile guerra rivendico con orgoglio di essere fortemente atlantista ed europeista». Nessuno, in realtà, si era spinto fino a tanto. Ma Di Maio ci tiene a interpretare fino in fondo questa parte. E ci tiene anche a frenare la corsa alle elezioni anticipate di Conte. Come scrive Pietro Salvatori sull’Huffington Post, «Di Maio aveva ricevuto una lunga serie di segnali che lo hanno convinto che l’intenzione del presidente del M5s era di staccare la spina al governo. Uscire dalla maggioranza entro settembre mettendo in una posizione insostenibile il Partito democratico, che si ritroverebbe da solo insieme a Lega e Forza Italia, e provocare un effetto valanga verso elezioni anticipate».

Sullo sfondo c’è forse il macigno più pesante, che incombe su tutte le altre questioni che, in sostanza, finiscono per essere pretesti: il limite del doppio mandato per gli eletti M5S. Come ampiamente previsto dalla «Casta» cinica dei cronisti parlamentari, la fine legislatura avrebbe portato all’implosione del Movimento. Un terzo dei deputati e senatori finiranno per non essere rieletti, per il combinato disposto di una crisi elettorale del Movimento, della riduzione del numero dei parlamentari e per la fine della carriera politica decretata dal tetto al secondo mandato. Una regola fondativa, qualcuno direbbe identitaria, del Movimento, che ha sempre rifiutato di interpretare la politica come mestiere, avallando l’equivoco di una vita politica popolata da incompetenti o, nel migliore dei casi, da persone inesperte del ramo. La fine del tetto del doppio mandato è ora chiesta sotterraneamente dai molti che rischiano la poltrona. Fino a qualche tempo sembrava inevitabile che si andasse in quella direzione o, in quella più problematica causa possibili ricorsi, di deroghe ad personam decise da Conte. Ma in questi giorni Grillo ha ribadito l’intoccabilità della regola. E Conte ha annunciato la messa al voto delle regola. Che da una parte ne sancisce la debolezza, dall’altra demanda la scelta alla piccola massa degli iscritti 5 Stelle, ancora imbevuti del populismo delle origini. Con esiti prevedibili.

Grillo, in realtà, non lo ha mai amato fino in fondo. I suoi complimenti erano sempre a doppio taglio, come quando disse: «Di Maio ha 64 anni e ha dei poteri occulti. Non ha sudato e ha parlato per un’ora, si autoprosciuga il sudore». Atermico, come Draghi (vedi il bellissimo reportage di Michele Masneri dal Foglio). In sostanza, quello di Grillo e Conte sul dopppio mandato è un preavviso di espulsione a Di Maio. Il quale fa rispondere i suoi che la persistenza del «tetto» taglierà la testa anche a mezza classe dirigente contiana, a cominciare da Paola Taverna e Alfonso Bonafede. In realtà, il ministro degli Esteri sa che c’è poco da fare e da tempo prepara le valigie. Dove andrà? L’idea di un centro draghiano (un polo riformista con Sala e Carfagna) non è campata in aria e il fatto che persino un deputato come Gianfranco Librandi, acerrimo nemico del M5S e del reddito di cittadinanza, esprima «ammirazione» per Di Maio è un segnale da non sottovalutare. Certo, Calenda ribadisce le sue accuse: «Non sarà un Di Maio in grisaglia a farci dimenticare quello che ha fatto e le sue parole anche recenti, non degne di uno statista, quando ha detto che Putin è peggio di un animale».

Cosa farà quindi, da grande, Di Maio? Secondo i suoi avversari, continuerà a fare quello che ha fatto finora, a muoversi opportunisticamente, oscillando tra Lega e Pd, tra Trump e Draghi, tra Lavrov e Zelensky, a seconda delle necessità e delle convenienze. Come scrive Christian Rocca «il ravvedimento operoso di Di Maio è grottesco, ma è ancora più surreale che qualcuno gli dia credito». Secondo i suoi più recenti estimatori, invece, crescerà ancora. Come scrive Gianni Riotta, con paragoni tanto allettanti quanto stranianti: «Bob Kennedy debuttò come segretario della Commissione anticomunista McCarthy e divenne leader dei diritti umani Usa. Molti dirigenti Pci passarono dallo stalinismo alla Repubblica, il presidente Scalfaro dal moralismo all’unità nazionale. Si cresce, si cambia».

Sicuramente l’avvenire di Di Maio — che sia un novello Bob Kennedy, un novello Angelino Alfano o un nuovo Renzi (Paola Taverna) - non è nel Movimento. Per la questione del doppio mandato, per l’inconciliabilità ormai acclarata con Conte e perché quest’ultimo, da leader del partito, farà le liste dei prossimi parlamentari, che quindi controllerà strettamente. Non si sa se si avvererà la profezia di Di Battista - «Il Movimento farà la fine dell’Udeur» -, ma Di Maio certo non finirà nelle retrovie. È abituato da sempre a pensare in grande. Non è sfuggito a nessuno il richiamo al Movimento che rischia di diventare «il partito dell’odio», con uno stilema comunicativo tipico di Silvio Berlusconi. Non a caso nella sua autobiografia Di Maio rivelò, con non poco compiacimento, un siparietto avvenuto a una trasmissione Mediaset di Paolo Del Debbio: «Quella sera, non appena terminai la mia intervista, Berlusconi iniziò a inseguirmi lungo i corridoi dicendo: “Di Maio, Di Maio, fermati”. Poi, a un certo punto, decisi di fermarmi. Lui mi porse la mano: “Ciao, Di Maio, volevo dirti che sei davvero bravo”».