Si può partire dalla fine: dal «grazie. E buon lavoro». Che detto al ministro degli Esteri russo, il cui lavoro negli ultimi mesi consiste nel riuscire a massacrare meglio e più in fretta possibile gli ucraini, suona osceno. Il rispetto lo si concede anche al nemico, ma ci sono certi segnali linguistici che lanciano l’allarme sulla sprovvedutezza di chi li usa o, peggio, sulla compiacenza.
Commentatori, autorevoli e meno, hanno sostenuto che sia stato un errore intervistare Sergei Lavrov, perché dare voce al nemico sarebbe un tradimento. Il giornalista della Stampa Iacopo Iacoboni si è esibito in un tweet veemente, ad effetto: «Il punto di vista di Lavrov va sicuramente spiegato: davanti alla Corte penale internazionale, in un processo per crimini di guerra». Noi invece pensiamo che quello di Zona Bianca (programma di Rete 4) sia stato un vero scoop. E che ogni giornalista di buon nome avrebbe voluto strappare un’intervista di questa portata, in esclusiva europea. Lode dunque a Rete 4.
Ma c’è un gigantesco «ma» da affiancare a queste considerazioni. Perché quando si ha di fronte un personaggio così controverso, ministro di un Paese che ha dichiarato guerra all’Ucraina e, in sostanza, all’Occidente, le regole di ingaggio devono essere chiare: contraddittorio duro, niente propaganda, si ascolta e si fa parlare ma si obietta, si ribatte, si confuta, si smentisce.
Non è successo nulla di tutto questo, invece. Giuseppe Brindisi, oscillando in studio, comprensibilmente nervoso, ha fatto il suo compitino preordinato. Ha posto alcune domande, intervallando brevemente un lungo monologo di propaganda di guerra. Non ha mai controbattuto A nessuna delle affermazioni aberranti fatte da Lavrov. Pare evidente che l’intervista fosse concordata, con le domande anticipate, tanto più che il ministro leggeva palesemente le risposte. Qualche esempio. Brindisi chiede giustamente se Putin stia bene, visti i filmati nei quali appare gonfio e tremante e viste le molte voci di una malattia. Lavrov si lancia in una risata e risponde: «Lo chieda a chi ci ha parlato». A quel punto un giornalista serio — un giornalista — avrebbe ribattuto: lo sto chiedendo a lei, può dirmi esplicitamente se Putin è affetto da qualche malattia grave o meno? Lavrov avrebbe potuto non rispondere, certo, ma se l’avesse fatto sarebbe stato una notizia. Non nel senso che avrebbe fatto fede la sua parola, ma nel senso che sarebbe stato costretto a esporsi. Brindisi non ci ha pensato un secondo. Perché aveva già la prossima domanda scritta e probabilmente concordata.
Così Lavrov ha potuto fare impunemente, tra le altre affermazioni, una gravissima sparata antisemita. Rievocando una storia controversa, e per nulla provata (ne parliamo sopra), la possibile origine ebraica di Hitler, usata per sostenere che i peggiori antisemiti sono gli ebrei stessi e quindi doppiamente colpevoli. E Brindisi? Annuiva. Lo ha fatto per tutta l’intervista. Forse un tic nervoso, un’abitudine, chissà. Certo, un segnale equivoco che sembrava di approvazione. La testa basculante di Brindisi catturava ipnoticamente la nostra attenzione, mentre Lavrov continuava imperterrito il suo comizio. Negando i massacri di Bucha, spiegando che i nazisti ucraini, muniti di tatuaggio, hanno approvato leggi a favore del nazionalsocialismo e deliri simili. Non si può annuire, neanche per spasmo, se qualcuno dice cose folli e criminali (a meno che tu non sia in Bulgaria, dove l’oscillazione verticale ha un significato opposto, negativo). Nelle scienze cognitive si chiama embodiment e gli studi confermano le capacità occulte di persuasione e di manipolazione dei gesti di assenso. I comportamenti non verbali contano, soprattutto in queste circostanze e soprattutto per chi sta dall’altra parte dello schermo.
In democrazia la libertà di opinione è sacrosanta. Così come è necessario sentire la voce degli avversari, persino dei nemici. Non è collaborazionismo intervistare Lavrov. Può diventarlo affidargli uno spazio con un finto contraddittorio, dargli una ribalta mediatica che, guarda caso, ha deciso di occupare solo in Italia, senza ribattere punto su punto le sue parole malate, la sua visione del mondo imperialista e criminale. Non era inevitabile. Basta riguardarsi l’intervista fatta sulla Cnn da Christiane Amanpour a Dmitry Peskov, portavoce di Putin. O rileggersi qualche pagina della storia del giornalismo italiano. Anche Oriana Fallaci intervistò Yasser Arafat, quando era un terrorista che dirottava aerei e organizzava attentati negli aeroporti. Lo fece senza fare sconti, irridendolo talvolta. Intervistò l’imam Khomeini e alla fine dell’incontro si tolse il velo per protestare contro la condizione delle donne nei regimi islamici. Non si parlerà qui dell’incontro nel ’39 di Indro Montanelli con Adolf Hitler, di cui vennero fornite diverse versioni (e non fu comunque un’intervista, ma al più un breve monologo del Fuhrer). Ma può essere utile rievocare le interviste di Sergio Zavoli ai terroristi, anche non pentiti, come Mario Moretti. Enzo Biagi intervistò Luciano Liggio e Stefano delle Chiaie. Jo Marrazzo il capo della ‘ndrangheta Giuseppe Piromalli e Raffaele Cutolo. In nessuno dei casi l’intervista si è conclusa con «buon lavoro». E in tutti questi casi, a fare la differenza, e a costruire la legittimità di dare la parola a personaggi detestabili, era la qualità dell’intervistatore, non quella dell’intervistato.
Alessandro Trocino