Quando ho scelto di fare il vaccino contro il Covid, l’ho fatto per proteggere me stessa e per fare la mia parte di cittadina, aderendo alla campagna di immunizzazione organizzata dal mio Paese. Non l’ho fatto a cuor leggero, l’ho fatto consapevole che un vaccino, così come un farmaco, può provocare problemi, anche molto gravi, su un certo numero di persone, una delle quali avrei potuto essere io. Ho letto, mi sono informata (su canali che mediamente finiscono con un .com o un .it, diffidando grandemente dei .org e .salcaz alle cui fonti si abbeverano coloro che vivono nella convinzione che il mondo e gli uomini siano qui al solo scopo di fregarli) e ho scelto quella che ritenevo la soluzione migliore per me e per la comunità in cui vivo.
Essermi vaccinata non ha significato che io non mi sia posta domande, non abbia setacciato la rete allo scopo di rintracciare informazioni, non abbia esercitato il dubbio: ho fatto tutto questo e, alla fine, ho scelto.
Lo stesso esercizio del dubbio, delle domande e della ricerca delle informazioni l’ho fatto e lo faccio ogni giorno sugli argomenti che mi interessano e mi stanno a cuore, su tutto ciò che, in misura più o meno determinante, incide sulla mia vita. Va da sé che lo sto facendo sulla guerra in Ucraina. Del resto ho sempre pensato che cercare una ragione agli eventi, se non può determinarne l’evoluzione, permette di comprenderli, almeno un po’. E io ho necessità di capire per poter vivere con quel minimo di consapevolezza che ritengo necessaria per un essere umano che viene chiamato ad esprimere la propria preferenza in una cabina elettorale. Così leggo, ascolto, approfondisco e penso che questo mi permetta di avere una visione più ampia e, comunque, meno da tifosa: che qua si parla di guerra e gente che crepa, non di scogli da asciugare o bambole da pettinare.
Solo che, questa volta, il mio esercizio di comprensione viene bollato come politicamente e socialmente riprovevole, come se cercare di capire le cose che succedono, le ragioni che le determinano, significasse schierarmi da una parte. La parte sbagliata, ovviamente. Come se in guerra esistesse una parte giusta e una sbagliata, come se i morti di una parte fossero un abominio e quelli dell’altra una benedizione. Come se fossimo allo stadio e non su un campo di battaglia. Come se un battaglione (Azov) che dal 2014 si è macchiato di crimini orribili e, nonostante questo è stato inglobato nelle forze militari ucraine, fosse una sciocchezza. Come se le bandanate di Villa Certosa (che hanno sancito la dipendenza energetica dell’Italia dalla Russia) non avessero un peso nel futuro di questo Paese che, diversamente da quanto pensano gli ottimisti delle rinnovabili, non ci permettono una rapida transizione energetica, con o senza PNRR. Come se acquistare il gas da un paese in cui il solo principio democratico conosciuto fino a ieri era la libertà di entrare da McDonald e comperarsi una borsetta di Chanel non fosse già stato una sorta di fiancheggiamento al dittatore e all’economia oligarchica di quel paese. Che sembriamo tutte vergini alla prima notte di nozze, stupite da tanto vedere. Come se le iniziative politiche del recente passato, quelle che ci hanno fatto infilare la testa nel cappio russo, non avessero ricadute sul presente sul futuro.
Ma la verità è sempre una cosa semplice: la verità è che in Europa, nei Paesi del G7, solo la Francia con le sue centrali nucleari a pararle le chiappe può agire in maniera risoluta (e le parole del suo presidente lo confermano quotidianamente) contro questa guerra. L’Italia e la Germania, al netto degli idealisti dell’armiamoci e partite, non possono ora e non potranno per molto, molto tempo. Ed è questo che pesa sulla bilancia della realtà. Ed è questo che oggi armerà la lingua di Zelensky (a cui mi auguro che da Stoccolma non arrivi un insensato Nobel per la Pace) quando parlerà alla Camera facendoci sentire in colpa perché non siamo al fianco dei suoi cittadini a farci ammazzare. Perché è sul senso di colpa dell’Europa che Zelensky fa leva in ogni suo intervento, consapevole che quella è l’unica freccia non spuntata che ha a disposizione.
Ma dopo 27 giorni di guerra e con Mariupol (città in cui è nato il battaglione Azov e che, al netto delle evidenti ragioni geopolitiche della Russia, ben si presta alla narrazione del regime russo che parla di liberazione dal neonazismo) rasa al suolo, io mi domando se Zelensky trovi un perverso piacere a veder crepare i suoi concittadini o se sia semplicemente vittima del personaggio che l’Occidente gli ha cucito addosso: quello dell’eroe per caso che, come tutti sanno, è uno dei ruoli più ambiti da ogni attore della commedia umana.
Deborah Dirani (Pagina Facebook)