«A Sizzano…bei posti che hanno…sono veramente belli. Andiamo proprio a rovinarli con i gessi». Risata. «Io sono stato un delinquente. Chissà il bambino che mangia la pannocchia di questo mais cresciuto sui fanghi». E, almeno qui, non ride nessuno.
Per avere un'idea di cosa sia la «terra dei fanghi» tutta padana descritta nell'ordinanza firmata dal gip di Brescia Elena Stefana basta scorrere le telefonate del geologo addetto alle vendite della «Wte srl», intercettato dai carabinieri forestali. Nelle parole del geologo c'è già una sintesi del sistema di smaltimento illecito dei rifiuti che avrebbe inquinato tremila ettari di terreni agricoli da Vercelli a Verona, insozzando con 150 mila tonnellate di concimi contaminati anche il Novarese il Piacentino e le province lombarde.
Il sistema ruotava intorno ai tre impianti bresciani di Calvisano, Calcinato e Quinzano d'Oglio, oggi sotto sequestro: i fanghi, provenienti da depuratori pubblici e privati, dopo un «sommario trattamento di recupero», venivano fatti uscire come «gessi di defecazione da fanghi» creando ad hoc dei campioni utili a passare i controlli. In realtà la «pappa», come la chiamavano in gergo gli addetti della Wte, non rispettava i parametri di legge perché conteneva dosi eccessive di metalli pesanti e inquinanti di ogni tipo.
A questo punto i Tir e gli spargiletame partivano verso i campi degli ignari agricoltori che accettavano di «concimare» i loro terreni con i fanghi. «Gli ho detto che è solo roba di scarti di lavorazione di frutta, verdura, tutte ché le bale le go dit (tutte quelle balle gli ho detto, ndr)» racconta un altro indagato.
Gli investigatori scrivono che «approfittano di circostanze di minorata difesa quali l'età avanzata, lo scarso livello culturale o le difficoltà psichiche delle persone a cui si rivolgevano». Uno degli autisti del gruppo, per esempio, parlando di due agricoltori da convincere, non ha problemi a puntare sull'anello debole: «C'è suo cugino, quello che mangia le nutrie; pur di risparmiare farebbe di tutto. Teniamocelo buono».
Ne parla Francesco Moscatelli su La Stampa