Non si può dire che sia stato un esordio timido. La prima conferenza stampa di Mario Draghi, dopo settimane di silenzio apprezzato o criticato, ha mostrato un presidente del Consiglio sicuro, rassicurante e a tratti ironico. Molto più a suo agio di fronte alle domande, a tutte le domande, di quanto si potesse immaginare. Pronto a vaccinarsi con AstraZeneca, dopo che lo ha già fatto il figlio a Londra. Consapevole delle difficoltà e della parzialità nella distribuzione degli aiuti. E molto sintetico. Anche se le oltre tre ore di ritardo con le quali si è presentato hanno rischiato di proiettare sul suo esordio le ombre del passato: quelle di una coalizione litigiosa e patologicamente protesa a frenare l’azione del governo.
Il rinvio ripetuto dell’orario è dipeso da una lunga trattativa, soprattutto con la Lega, che voleva sottolineare la sua insistenza sul condono fiscale: un’impuntatura che alla fine si è rivelata un modo per marcare un fazzoletto di territorio elettorale; ma ha fatto pensare anche ad una certa incomprensione della fase nuova apertasi nel Paese. Nel lungo negoziato che ha preceduto la riunione del Consiglio dei ministri qualcuno ha visto la volontà dei partiti di non apparire irrilevanti. Da giorni, il mantra dello scontento contro Palazzo Chigi e alcuni ministri di Draghi è che farebbero tutto da soli.
Se era davvero questo l’obiettivo, in apparenza può avere avuto successo. Ma solo in apparenza. In realtà ha mostrato quanto sia miope la voglia di alcune forze di riproporre dinamiche che hanno umiliato la politica, invece di cogliere le opportunità di una stagione nuova: un’occasione per ricostruirsi e rilegittimarsi. Il premier ha liquidato le rivendicazioni della Lega concedendo la mole di «annunci passati» e di «bandiere identitarie» che «tutti i partiti» si portano dietro. Il problema, ha aggiunto, è chiedersi quali siano di buonsenso e quali dannosi. Insomma, li ha trattati come riflessi automatici di un’epoca finita, e che tuttavia tende a riaffiorare in alcuni comportamenti.
La conferenza stampa poteva finire per accreditare l’idea di continuità con un passato caotico. Le liti tra alleati prima del Consiglio dei ministri; il rinvio dell’inizio dell’incontro; le voci di un negoziato teso e forse inconcludente; e il primo impatto con i giornalisti. Ma questa immagine distorta è stata corretta in un’ora di risposte su tutto, dalle vaccinazioni al Quirinale, ai rapporti con le Regioni e con la Commissione europea. Risposte rapide, nette, a domande tutt’altro che addomesticate. E in qualche caso, repliche volutamente ipersintetiche: come quando è stato chiesto a Draghi se voglia succedere a Sergio Mattarella come capo dello Stato e quanto durerà il suo governo. Dipende dal Parlamento, si è limitato a dire.
La sensazione complessiva è stata quella di una persona molto sicura di sé e di quello che deve fare; e anche per questo in grado di trasmettere fiducia a un’Italia che la miscela di crisi economica e pandemia rende spaventata e disorientata. Le spiegazioni che ha dato sulla sospensione del vaccino di AstraZeneca; le proiezioni sulla campagna dei prossimi mesi; gli aiuti che il governo darà ai poveri; la tranquillità con cui ha spiegato l’esigenza di «dare soldi e non chiedere soldi» finché c’è la pandemia: sono tutti pezzi di una strategia che non contempla né annunci enfatici né allarmismi. Lascia intuire un percorso già tracciato, che prevede non scontri tra Stato e Regioni ma correzioni graduali e condivise dei comportamenti.
Draghi si è limitato a dire un «non va bene» quando a livello locale ci si muove «in ordine sparso». E in parallelo ha descritto un intero Paese pronto a mobilitarsi per fare meglio. È riuscito a inquadrare in una cornice di puro pragmatismo, senza veleni ideologici, anche un argomento divisivo come il prestito europeo del Mes sulla sanità. Quando ci sarà un piano ben definito, ha spiegato, deciderà il Parlamento se prendere o meno quei soldi. Il cambiamento di stile e di linguaggio è oggettivo. Ma va detto che Draghi è aiutato da una situazione così compromessa per il sistema politico, da consegnargli le chiavi del futuro del Paese.
Sa di avere creato molte, troppe aspettative. E sembra consapevole anche che possono trasformarsi in delusioni. Ma ormai governa, e vuole andare avanti facendo presto e nel modo migliore. Gli equilibri del passato sono già saltati, e il premier probabilmente è insieme il sintomo e la causa di questo cambiamento radicale. Ma l’accelerazione non è figlia della subdola volontà di qualche potere sovranazionale; semmai, dell’inadeguatezza di chi ha mostrato limiti di competenza e di strategia. Le resistenze riemerse ieri dall’interno della coalizione confermano che alcune logiche sono dure a morire.
Gli stessi canoni del sovranismo populista sembrano arretrare tatticamente, ma sopravvivono, pronti
a riaffacciarsi alla prima occasione; e la principale sarebbe un
fallimento del tentativo di Draghi. Forse sarebbe bene che il «fronte
conservatore» disseminato lungo l’intero arco parlamentare si rendesse
conto della profondità dei cambiamenti in atto. E invece di vivere
questo laboratorio unitario e inedito come una minaccia, si rivelerebbe
lungimirante accettandolo non come una parentesi da chiudere presto, ma
come un trauma salutare per reinventarsi e rimettersi in piedi.
Massimo Franco, Corriere della Sera