Il Papeete permanente di Salvini (e l’immane fatica di difenderlo da Ferrara), di Gianluca Mercuri

 Il Foglio

Il Papeete permanente di Salvini (e l’immane fatica di difenderlo da Ferrara) - Gianluca Mercuri

Un collega che conosce bene Salvini perché lo intervista un giorno sì e un giorno no, un collega che la sera si beve anche una birra con lui quando capita, un collega che non è leghista ma è amico del capo della Lega, un collega bravissimo e molto acuto, alla domanda «ma lui ci crede davvero?», un giorno rispose così: «Glielo chiedo spesso, e lui ogni volta allarga le braccia e dice “eravamo morti, al 4 per cento, era l’unico modo per rialzarci”».

Era il 2015, e poi il 2016, c'era il governo Renzi e il 40 per cento del suo Pd alle Europee del 2014 ormai sembrava un'allucinazione, c'era stata la crisi dei migranti, una stagione di sbarchi su sbarchi e stazioni piene di bivacchi africani: l'«invasione» si sarebbe fermata lì, ma la sua percezione collettiva l’avrebbe ingigantita e cristallizzata nelle paure e nei voti. Paure - attenzione - estese a tutto il territorio nazionale. Da qui l'intuizione di Salvini: superare la farsa della Padania e del vetero-secessionismo e farsi interprete di quell'angoscia atavica, perché la «xenofobia», la paura dello straniero, è un sentimento radicato nell'inconscio collettivo, e la sinistra avrebbe fatto l'errore di non capirlo e demonizzarlo a priori. Certo, la sinistra ha sempre il compito più difficile: provare a spiegare che le tasse servono e gli immigrati pure è come giocare perennemente in trasferta partendo dallo 0-2. Salvini, comprensibilmente, trovò come sempre comodo giocare in casa e partire dal 2-0 per lui. Gli bastò cambiare ragione sociale - i neri al posto dei meridionali e Bruxelles al posto di Roma come nemici, l'Italia al posto della Padania come patria - e quel 4 per cento quadruplicò in pochi mesi: «Eravamo morti, era l’unico modo per rialzarci».

Queste cose vengono in mente leggendo Giuliano Ferrara e la sua «breve fenomenologia» di quello che prima chiamava Truce (assonanza con Duce puramente voluta) e ora Infiltrato. Di Salvini, e prima ancora di Bossi, Ferrara è stato alleato per lustri interi e intensi. Poi il Vate del berlusconismo si è spostato più al centro, un centro più ideale che reale, fatto in teoria del meglio della destra e del meglio della sinistra, capace di apprezzare perfino Conte e i vecchi compagni del Pd. Anche per come, insieme a Renzi, nel 2019 fregarono Salvini, inviso al fondatore del Foglio proprio per la deriva sovranista ed estremista, un trumpismo de noantri che detesta quanto e più dell'originale americano.

Ora lo chiama l'Infiltrato perché l'ennesima conversione salviniana - stavolta all'europeismo - non lo convince neanche un po'. Ci vede il solito opportunismo. Ed è così duro che stimola un esercizio imprevisto: la difesa di Salvini, o meglio la ricerca delle sue attenuanti.

Scrive Giuliano Ferrara:

«Salvini non capisce la politica. Sa solo dove va il vento provvisorio, e lo asseconda con parole immagini e comportamenti di basso conio, vicini alla sua rappresentazione belluina di cosa sia il popolo (il suo organo social si chiama la “Bestia”). Non ha la minima visione del passato, del presente e nel presente, del futuro. Vede bene soltanto il provvisorio degli stati d'animo, quello che lo induce a dire basta euro, viva l’euro, chiudere tutto, aprire tutto e altre scemenze da energumeno. In politica non ci vede proprio, è ultramiope, è solo un esperto e primitivo demagogo».

È vero, Salvini è un demagogo. Ma non è vero che non abbia «la minima visione del passato, del presente e nel presente, del futuro»: depura il presente dal passato in funzione delle convenienze future. Si contraddice in modo così plateale che non ha bisogno né di ammetterlo né di negarlo. Non ha vincoli moralistici imperativi come quelli della sinistra, l'impianto valoriale del suo elettorato è apparentemente arcaico ma flessibile. Basta indicargli un obiettivo materiale concreto e un nemico chiaro.

Ferrara: «Il suo vice, che è di un'altra stoffa, gli ha spiegato che doveva dire di sì a Draghi e a quello che rappresenta, prima di tutto una mentalità italiana evoluta, cioè europea e internazionale, se non voleva schiantarsi contro il suolo dell’irrilevanza rumorosa. L'Infiltrato questo non l'ha capito. Ha appena intuito che forse poteva tornare ministro, girare con un macchinone, darsi da fare nei comizi, minacciare le dimissioni a ogni angolo di strada, vantarsi dei suoi nuovi occhiali da adulto e da perbene, che gli stanno “come un cilindro a un cafone arricchito” (Eliot)».

È vero che è stato Giorgetti, dopo anni di fatica, a convincere Salvini che può vincere tutte le elezioni che vuole ma non potrà mai governare con l’ostilità di Bruxelles, e che sostenere Draghi è una formidabile scorciatoia per attenuarla, forse superarla. È vero anche che Salvini ha detto sì.
Ferrara: «Draghi naturalmente ha nominato ministro il suo vice, si è guardato bene dall'imbarcare un Infiltrato nella compagine di governo. Questi allora ha deciso la sua tattica demagogica. I ministri facciano un po' quel che vogliono e possono, il Paese veda di farsi governare da questi qui che mi escludono, io faccio il controcanto dell’Infiltrato, senza farmi sgamare (povero fesso)».
È vero: Salvini sta provando a fare due cose, l'azionista di maggioranza del governo e il sindacalista del Paese stufo del virus. Giorgetti incontra l'industria farmaceutica e lui ci mette il cappello per dire che l'incontro serve a dare all'Italia la «sovranità vaccinale», a farsi i vaccini suoi, e intanto riaprire-riaprire-riaprire, deve essere sempre chiaro che a chiudere sono Speranza e casomai Draghi ma la Lega è per riaprire.

Per Ferrara è un «minuscolo calcolo politico, una cosa da Papeete permanente, una tattica da spiaggia che ha già prodotto il suicidio politico come risultato, e la corrispondente salvezza dell'Italia dalla stupidità con i pieni poteri. Lui si limita a giracchiare, vitellone della politichetta, qui e là, e sente che la gente naturalmente ha voglia di aprire la sera, di fare matrimoni in ghingheri, di assembrarsi alla grande, di rimettere tutto in moto: legittimo, e perfino ovvio. E allora sparacchia a salve le sue dichiarazioni di perfetta ininfluenza, se la prende con il ministro della Salute, con il commissario tal dei tali, spinge il gioco delle invidie e delle malevolenze incrociate, insomma si comporta da Infiltrato. Gli Infiltrati fanno così, parlano a schiovere, cercano consenso a cattivo mercato, si nascondono e alla fine vengono espulsi e messi dietro la lavagna. Wait and see».

«Espulsi e messi dietro la lavagna»: chissà cosa intende, forse una maggioranza che un giorno faccia a meno della Lega e diventi «Ursula», dai 5 Stelle a Berlusconi e chissà se basterà, magari tenendosi Giorgetti e qualche altro leghista stufo. Però sarebbe un mezzo fallimento: portare tutta la Lega in Europa sarebbe meglio per tutti. Se Salvini sciogliesse la sua doppiezza e scegliesse il richiamo sovranista sarebbe un male per l'Italia. La doppiezza è pessima ma anche ottima se gradualmente porta un pezzo importante di Paese dalla parte giusta, come Ferrara (togliattianamente) sa meglio di chiunque: col Pci la parte giusta fu la democrazia e con la Lega è stata la fine del secessionismo e ora, sperabilmente, l'europeismo. Salvini è doppio anche perché ha due elettorati, il tessuto di piccola-media imprenditoria del Nord che certamente vuole l'Europa, ma anche tanti forgotten italians che ancora vanno convinti che l'Europa serve anche a loro. E deprecabilmente, il più attrezzato a riuscirci è l'Infiltrato.
Gianluca Mercuri