Come il fallimento del Recovery Plan ha portato alla caduta di Conte. Editorialista Gianluca Mercuri
INTERESSANTISSIMO ARTICOLO CHE RACCONTA LA GESTIONE FALLITA (per fortuna!) DEL RECOVERY PLAN.
LO DEDICO ALLE "CONTESSE", A "LE BIMBE DI CONTE" E A COLORO CHE "Ci mancherà, Presidente", "Non la dimenticheremo mai, Presidente", e tutta la nauseante retorica che dilaga su social e giornaletti dei più vari (senza la minima doverosa informazione di argomenti scottanti e fondamentali).
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Domani
Come il fallimento del Recovery Plan ha portato alla caduta di Conte. Editorialista Gianluca Mercuri
Un Recovery Plan malscritto, impresentabile, indifendibile. Affidato da Giuseppe Conte a una cerchia ristretta di fedelissimi: non incompetenti, ma alla fine incapaci di partorire un progetto approvabile dalla Commissione europea e funzionale per un Paese alle prese con un'opportunità di rilancio irripetibile. Che questa fosse la vera ragione della caduta del governo - prima dell'attacco sferrato da Renzi e del fallimento dell'operazione «costruttori» - era già evidente dalle cronache politiche di queste settimane. Emiliano Fittipaldi - il cronista di Domani che ha appena firmato lo scoop sullo sciagurato viaggio del leader di Italia viva in Arabia Saudita - ora ci aggiunge il carico, basato su fonti del ministero del Tesoro. Che, scrive, gli hanno offerto questa ricostruzione: «In realtà uomini dell'entourage di Sergio Mattarella, la Commissione europea di Ursula von der Leyen e le cancellerie di Berlino e Parigi hanno spinto per la sostituzione di (Conte con) Draghi subito dopo la lettura della prima bozza». Motivo: «Erano terrorizzati che il governo buttasse nel gabinetto l’occasione storica, precipitando l'Italia e di conseguenza la Ue in una crisi economica e finanziaria definitiva». Fosse vero, si tratterebbe di una riedizione delle pressioni interne e internazionali che dieci anni fa portarono alla sostituzione di Silvio Berlusconi con Mario Monti, anche in quel caso in un contesto di allarme per il Paese. Ma ovviamente sono congetture difficilmente dimostrabili: quello che conta è la conferma che il governo, efficace nella battaglia europea per ottenere i fondi, abbia poi pagato il fallimento nel compito di costruire un Recovery Plan all’altezza.
Il giornale fondato nei mesi scorsi da Carlo De Benedetti ripercorre lo scontro tra il premier e la sua maggioranza iniziato a fine luglio, quando Conte decide di accentrare la gestione del Next Generation Ue, affidandola a Riccardo Cristadoro, arrivato nello staff di Palazzo Chigi nel dicembre '19 dalla Banca d'Italia, dov'era senior director di economia e statistica. Il premier, scrive Fittipaldi, «ha idee confuse in merito a progetti e investimenti, ma sul modus operandi ha pochi dubbi: prima esautora il parlamento da ogni decisione sul Recovery, poi fa fuori dalla cabina di regia pure i partiti della maggioranza. Per il timore di probabili assalti alla diligenza, certo, ma soprattutto per accrescere a dismisura il ruolo di palazzo Chigi nel dossier». Viene rispolverato il Ciae, Comitato interministeriale Affari europei, per scavalcare i tecnici del ministero dell’Economia e la Ragioneria dello Stato, i soggetti più adatti all'estensione del piano. Cristadoro viene affiancato da Fabrizio Lucentini, capo di gabinetto del ministro Amendola, e Federico Giammusso, capo della segreteria tecnica di Gualtieri. Sono loro tre, con l'aiuto di un pugno di giovani esperti, a redigere il piano. Che, com’è noto, non funziona: «I progetti più dettagliati inseriti nella bozza sono vecchi, in giacenza da anni nei cassetti dei ministeri. Quelli nuovi sono fumosi, aleatori. Soprattutto, come segnalerà in seguito la Banca d'Italia, non tengono conto della necessità di effettuare interventi che generino “effetti moltiplicativi'” sulla crescita e sul Pil». Troppi investimenti a fondo perduto, troppo "debito cattivo" come direbbe Mario Draghi.
Il disagio dei partiti cresce ed esplode a fine anno, dopo che Conte aveva pensato a una struttura di 300 tecnici guidati da sei supermanager di Stato, che avrebbe esautorato di fatto i ministeri. La guerriglia dei renziani si fa martellante, il malumore del Pd evidente. Finché il ministro Gualtieri riprende il controllo e in 12 giorni il piano viene riscritto da tre classici boiardi di Stato, il ragioniere generale dello Stato Biagio Mazzotta, il direttore generale del Tesoro Alessandro Rivera e il capo di gabinetto del Mef (Ministero Economia e Finanze) Luigi Carbone. «Le strutture del Mef, finora usate a scartamento ridotto, migliorano - a detta di quasi tutti gli osservatori - il progetto. La riforma della giustizia si concentra maggiormente sull'accorciamento dei tempi della giustizia civile, per l'Europa elemento assai più imprescindibile della riforma del processo penale. Vengono inseriti investimenti più omogenei, spunta qualche tabella descrittiva. La riforma della burocrazia (più meritocrazia, digitalizzazione, abbassamento dell'età media dei dipendenti) viene finalmente contemplata nelle nuove pagine».
Secondo le fonti di Domani, Conte intendeva usare questo miglioramento per sfangarla, varare il Conte Ter e poi affidare di nuovo il tutto ai suoi fedelissimi. Quello che gli preme, è l'accusa del giornale, è «accrescere il proprio consenso a scapito del debito. Al contrario, puntare sulla spesa in conto capitale, quella cioè destinata a investimenti strutturali che sviluppino ricchezza duratura, non sembra una politica nelle corde del pugliese». A questo punto, conclude la ricostruzione, «la preoccupazione cresce durante le trattative per il Ter, quando i dettagli della storia che stiamo raccontando (la task force di Cristadoro, le manie di segretezza, le perdite di tempo, l'assenza di una visione generale) vengono analizzati al microscopio dal Quirinale, dagli esperti di Bruxelles e di Angela Merkel (prima garante dei 209 miliardi dati a Conte la scorsa estate)».
Il presunto coinvolgimento di questi poteri, naturalmente, è tutto da provare e alimenterà le consuete polemiche complottiste. Di certo, Conte e Gualtieri hanno avuto il merito storico di concludere con successo il negoziato del Recovery. Ma poi le smanie accentratrici del premier sono tracimate e il ministro non è riuscito a tamponarle in tempo. Il rischio che l'Italia perdesse un'opportunità storica era serio. E l'arrivo di Draghi il miglior rimedio possibile.