L’avvocato ha chiamato e questa volta il senatore ha risposto. L’andata a Canossa è forse riuscita a evitare che al Colle Renzi pronunciasse un no definitivo al Conte ter, ma ha anche permesso al leader di Italia viva di accorciare ancora un po’ il guinzaglio delle sue condizioni, lasciando una strada strettissima alla riedizione dell’alleanza.
Non c’è bisogno della palla di vetro per sapere che i due si disprezzano.
Per Matteo Renzi, Giuseppe Conte è un miracolato, una figurina di cartone, che ha occupato il posto di presidente del Consiglio da usurpatore, un po’ come tutti quelli che si siedono sullo scranno più alto di Palazzo Chigi dopo i mille giorni del suo governo. Per Giuseppe Conte, Matteo Renzi è un traffichino di provincia, un professionista degli agguati, infido e spregiudicato.
Li divide la chimica e la politica fin
dalla nascita dell’alleanza ora in crisi. Se per il premier
dimissionario era l’inizio di un percorso tra diversi che poteva portare
a un patto capace di competere con le destre, per il leader di Italia
viva era un passaggio obbligato ma breve per fermare l’allora marcia
trionfale di Matteo Salvini.
Il secondo governo Conte giura il 5 settembre del 2019. La scissione di Italia viva è del 18 settembre, tredici giorni dopo. Uno sbigottito e prudente neo premier diceva: «Se avessi saputo prima della decisione avrei voluto e preteso un’interlocuzione diretta con quel gruppo». Rassicurante e vagamente inquietante gli rispondeva il senatore: «C’è un patto di governo, lavorino, noi diamo una mano, facciamo il tifo. Io nei prossimi mesi girerò in macchina, per le fabbriche, per le aziende: mi rimetto in gioco».
Conte si sentì così confortato da quelle parole che il giorno dopo cominciò a chiedere in giro se non ci fosse modo di buttare alle ortiche il gruppo di Italia viva e sostituirlo con qualcuno di più affidabile. Gli spiegarono che no, erano troppi, bisognava tenerseli e fare finta di niente.
Non ci fosse stata la pandemia forse le cose potevano trascinarsi un po’ stancamente e un po’ rissosamente fino all’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Ma troppa la voglia di far da solo dell’avvocato, specie con i soldi del Recovery, i 209 miliardi promessi dall’Europa, e troppa la popolarità che cresceva a colpi di Dpcm, tanto da far sospettare il desiderio di un partito personale, perché il senatore potesse sopportarlo.
Il ruzzolare natalizio della situazione l’ha raccontato bene sulCorriere Tommaso Labate. L’avvertimento velato non è nelle corde di Renzi. Fa sapere all’usurpatore, a mezzo piccione viaggiatore, che lo considera un simpatico ragazzo ma che per il bene di tutti deve tornare a fare il professore, magari portandosi dietro il suo portavoce, Rocco Casalino. Perché è un incapace, del tutto inadeguato al ruolo che ricopre. Conte lo considera un avventuriero, ridotto sul lastrico elettorale non appena si tornasse a votare. A brigante, brigante e mezzo, si dice però l’avvocato, proviamo a trattare, del resto è con i nemici che si tratta.
E allora comincia un imbarazzante tentativo di telefonate (senza risposta) e di messaggi, vagamente melliflui da una parte, apertamente irridenti dall’altra.
Auguri Matteo a Natale, ancora Auguri Matteo a Capodanno, e per finire, il 6 gennaio, possiamo cambiare insieme il Recovery Matteo! Le risposte sono mortificanti per Conte: auguri ricambiati freddamente, senza mai scrivere «Giuseppe», per concludere con un «Buona Epifania a te». Epifania che è sì la manifestazione di Cristo al mondo, ma anche l’ultima spiaggia, che tutte le feste (e tutti gli usurpatori) si porta via.
Quella che segue è cronaca di questi ultimi giorni, con Conte che non resiste alla vendetta e nel discorso alle Camere non chiama mai per nome Renzi, che si lascia andare all’anatema, mai più con Italia viva, che inizia una ricerca affannosa di «costruttori» con cui neutralizzare il rivale. Nella risposta trova il senatore che declina in Aula tutte le ragioni per cui lo considera un incapace, feroce nel contestargli il tentativo di mettere in piedi un’armata Brancaleone per affondarlo. Fossero stati a San Siro avrebbero dovuto dividerli Rocco Casalino e Teresa Bellanova.
Ora si attende l’epilogo.
In fisica vige il principio di esclusione di Pauli. Due particelle non
possono occupare lo stesso stato quantico (la presidenza del Consiglio).
Ciò avviene solo se sono sconvolte da una enorme forza gravitazionale che le comprime, disintegrandole entrambe.
Roberto Gressi